“Io e i miei colleghi ‘comunisti´ quando il cinema era scoperta”

Degli 84 anni dal portamento asciutto di Carlo Lizzani non colpisce soltanto il fantastico attivismo. Ora per esempio. Mentre la Cineteca di Bologna, nei giorni scorsi nell´ambito della rassegna “Le parole dello schermo” diretta da Angelo Guglielmi, e proprio oggi il festival di Narni celebrano il restauro del suo La vita agra con il quale nel ´63 e con Tognazzi protagonista si accostò alla temperie del boom e della migliore commedia, annuncia l´imminente uscita (da Einaudi) della sua autobiografia “Lungo viaggio attraverso il secolo breve” e contemporaneamente tre progetti di film, oltre a una quantità di altre cose che ci vorrebbe una pagina a elencarle. Non solo l´attivismo instancabile. Ma anche la lucidità sorniona, la fedeltà ai propri principi di uomo di sinistra e all´indole analitica dello storico e del “politico” che è sempre stato non disgiunta da una visione realista e maliziosamente esperta, che gli fa mantenere costantemente gli occhi aperti sul mercato («dovrebbe essere il momento adatto per questo progetto»: parlando di intercettazioni) e ricordare senza fronzoli che la grande stagione neorealista esplose grazie anche al fatto che i suoi capolavori fecero gola ai padroni del cinema internazionale. Al contempo sa spiegare pacatamente e semplicemente che cosa fu la famosa “egemonia culturale” comunista del dopoguerra: fu un regalo da parte di altre parrocchie che sottovalutarono arte e cultura, fu un´attitudine intelligente che seppe affiancare personalità per nulla di sinistra – Rossellini, De Sica, Fellini – senza la pretesa di “iscriverli al partito”.
«La mia non è stata una vita al servizio del cinema. Mi sono servito del cinema per conoscere il mio paese, il mondo, la storia, il Novecento. Questo è lo slogan dell´autobiografia. Il cinema mi ha permesso di conoscere i grandi testimoni, tra i tanti documenti che conservo ricordo soltanto una lettera di Pertini nella quale si lamenta che la sua figura nel mio Mussolini ultimo atto non rendesse giustizia alla sua irruenza e al ruolo avuto nella decisione di fucilare il duce».
Può anticipare qualche punto della sua autobiografia?
«Proprio a proposito dei rapporti tra cinema e partito comunista italiano. Ricordo come personalità quali Rossellini, cui io comunista fui molto vicino come aiutoregista per Germania anno zero, e poi De Sica, Zavattini, Germi che non erano affatto vicine al partito comunista furono attratte nella sua orbita non perché il partito facesse nei loro confronti del proselitismo ma perché fu il Pci il loro principale sostenitore nelle battaglie contro la censura e non solo. E in particolare proprio per Germania anno zero Rossellini ricevette da “noi” pieno sostegno non grettamente strumentale e non in una chiave di conflittualità drammaturgica tradizionale o militante o ideologica che, trattandosi della Germania, avrebbe potuto in quel momento tentarci. Pieno appoggio alla sua lungimiranza di anticipatore delle grandi tematiche dell´unità nazionale e della patria. Bisogna certo ricordare che i gruppi di lavoro dei film erano fortemente animati da passione politica. Magari ci fosse ancora oggi».
Ricordi di contatti diretti con i massimi dirigenti comunisti? Si è fatta strada quasi l´idea che cineasti come lei legati al Pci “prendessero ordini” da Botteghe Oscure.
«Ricordo un episodio. Quando la cooperativa vicina al Pci che aveva prodotto il mio primo film Achtung banditi! e poi anche Cronache di poveri amanti andò in crisi mentre, siamo a metà anni Cinquanta, si diffuse la paura che tutti nel cinema italiano fossero comunisti da Monicelli ad Antonioni, riuscimmo attraverso Pajetta ad avere un colloquio con Togliatti per chiedergli consiglio. Togliatti si dichiarò contrario all´esistenza di una casa di produzione “di partito” e disse: meglio navigare in mare aperto. Questa era la politica culturale. Non influenzare ma semmai accogliere e sostenere. Sono stati gli altri poco furbi a scoraggiare tanti cineasti che avrebbero potuto ruotare nell´orbita di culture diverse da quella comunista».
Qual è il principale talento che riconosce a se stesso, che cosa le ha permesso di essere così resistente?
«Forse l´eclettismo, l´aver spaziato tra tutti i generi. E l´aver alternato cinema documentario e di finzione così come l´attività di regista con quella di storico ed altre esperienza come la direzione del festival di Venezia. Forse sono troppo le mie identità, chissà».
Tre progetti di film. Uno dal libro di Andreotti “Operazione via Appia” sulle intercettazioni durante il passaggio dal fascismo al postfascismo. Un altro ispirato al libro di Marco Nozza sulla prima strage di ebrei in Italia nel settembre ´43 all´Hotel Meina sul lago Maggiore. E il terzo, una commedia che potrebbe intitolarsi “La parola ai giurati”, protagonista la giuria di un grande festival.
«Credo che il più urgente sia il primo. Perché la tematica come sappiamo è oggi in Italia molto attuale. È la storia di un uomo che incarna un “servizio” destinato a sopravvivere ad ogni cambio di regime – le uniche conversazioni che non riesce a “decodificare” sono quelle tra re Vittorio Emanuele e Badoglio perché in piemontese stretto – ma troverà la forza di ribellarsi a un´identità in cui alla fine non si riconosce più: all´indomani dell´8 settembre deciderà di mettere i segreti che conosce al servizio della causa giusta».