Io, colpita dal lutto, dico:«Mai più morti sul lavoro»

La signora Franca è una donna mite, ha modi garbati, la voce sicura ma a tratti vibrata dal dolore. Oggi se ne starebbe volentieri da sola a casa col telefono spento e la porta chiusa, a ricordare in pace suo marito nel primo anniversario della morte. O con i suoi figli Gabriele e Roberta, 16 e 14 anni, «due adolescenti, a cui manca moltissimo il loro papà». E però sa che mai come adesso il suo dolore ha bisogno di essere comunicato, insieme alla rabbia e all’impegno di fermare la “strage”.
«Ho un po’ di difficoltà – confessa paziente a Liberazione – perché per me il dolore è una cosa privata, però riconosco la necessità di raccontare queste storie e metterle in risalto, perché forse è l’unico modo per cercare di prevenire qualcosa». Riconosce che quel dolore che ha bisogno di sfociare in un mare di «intimità collettiva».
La signora Franca ha 47 anni, gli stessi che aveva Antonino Mingolla quando alle 16 del 18 aprile dello scorso anno è rimasto avvelenato dall’ afo , un gas mortale che scorre nei tubi del megacantiere dell’Ilva di Taranto, usato come combustibile per fondere l’acciaio.
«Mio marito, le assicuro, non era uno stupido o uno sprovveduto. Era una persona che amava la vita, molto legata alla famiglia, assolutamente non avrebbe rischiato così tanto». Da nove anni lavorava come vice-capocantiere alla Cmt, una ditta subappaltatrice che ha il compito di operare ristrutturazioni durante le “fermate”, i periodi in cui l’Ilva sospende le produzioni per fare una specie di chek-up: mettere mano agli impianti, sostituire tubi, valvole e macchinari. Sono quei lavori “stagionali” in cui magari per dieci giorni si rastrella molto personale, usato e buttato via quando non serve più. E allora spesso si impiega manovalanza tramite agenzie, operai inesperti o impreparati. Non era il caso di Antonino, che di esperienza ne aveva da vendere.
Solo che quel maledetto giorno qualcosa è andato storto. Già alle dieci di mattina un operaio aveva avuto un malore, stava per svenire e si era allontanato. Lo stesso Antonino verso mezzogiorno si era dovuto fermare: nausea, vertigini e capogiro. «Una cosa frequente – spiega la moglie – quando si lavora a contatto con esalazioni e su impianti a venti metri da terra. Per loro era abbastanza normale operare in quelle condizioni». Quello che non era normale è che il gas continuasse ad uscire nella fase di pulizia delle grosse tubature.
«Gli operai sono dotati di maschere antigas e di bombole di aria collegate a terra – spiega Franca – due o tre di loro hanno a disposizione un rilevatore, ma sembra che nessuna maschera abbia segnalato questa presenza».
Il livello tollerabile è stimato attorno ai 100 ppm, un’unità di misura con cui si “pesano” le esalazioni di gas. Al momento della rilevazione dopo l’incidente è stato trovato un quantitativo venti volte superiore: 2mila ppm.
La magistratura sta indagando e il processo ancora non vede la luce. Ad ogni modo, per usare un eufemismo, ci sono state delle “leggerezze”. «Da parte di tutti – precisa la moglie di Antonino, che non è in vena di polemiche – della ditta, dell’Ilva e anche dei lavoratori». Quel che è certo è che mancavano misure di sicurezza. Il tubo di tre metri di diametro era affiancato da ballatoi, ma dal lato dove lavorava Antonino non c’era nessuna passerella da utilizzare come via di fuga: «Se si fosse sentito male avrebbe dovuto scavalcare».
La signora Franca non ha i paraocchi, riconosce che sul luogo di lavoro si possono commettere errori, sottovalutare rischi. Il problema, però, è che alcuni rischi gli operai non li conoscevano neppure. «Sapevano che il gas era tossico, ma non fino a quel punto». La vedova Mingolla racconta che il titolare dell’Ilva ha scaricato tutte le responsabilità sulla Cmt. Ma anche il gigante dell’acciaio, secondo lei, ha le sue colpe: «Prima di tutto perché durante quell’operazione il gas non ci doveva essere». E poi perché ha subappaltato con “leggerezza”: «Bisognava esigere delle condizioni di sicurezza precise. Agli operai non sono stati fatti dei corsi per la conoscenza di questo tipo di gas».
E allora, fuori dalle responsabilità penali che restano da acclarare, il messaggio della signora Franca è rivolto a tutti: «Cambiare la mentalità, educare alla sicurezza, per questo mi batto». Con questo spirito ha deciso di impegnarsi nell’associazione “12 giugno”, che raccoglie le testimonianze dei parenti delle vittime sul lavoro dell’Ilva Taranto-Brindisi.
Domani l’associazione sarà a Mesagne (Br), la città di origine di Antonino Mingolla. “Mai più morti sul lavoro” è il titolo del convegno, in cui si cercherà di lanciare una piattaforma che possa imprimere un’accelerazione alle buone intenzioni del governo: pene più severe per le imprese che lucrano sulla pelle dei lavoratori, processi più rapidi e la possibilità per sindacati e familiari di costituirsi parte civile. Lo Stato lo deve ad Antonino, alla signora Franca e – purtroppo – a tanti, tanti altri.