Io ci ragiono e canto con Dario Fo

Tre metri di distanza, facciamo quattro. Ma lui, Dario, è lì in piedi, impettito, pancia in fuori e capelli indietro che dice delle cose in scena; lei, Franca, sta seduta in prima fila e lo corregge da dietro i suoi occhialoni: «Macché trent’anni, Dario, “Ci ragiono e canto” la mettevi su quarant’anni fa, quaranta». Lui sorride a modo suo, tanto trenta o quaranta che differenza fa? Quasi vero, quasi falso: che problema c’è? È il teatro bellezza, l’unico luogo della terra dove tutto è vero, anche il falso. Il pubblico ride, se la ride, mentre circonda la coppia di gratitudine e di affetti, una torta insolita offerta da mani insolite dentro la struttura non proprio bellissima del teatro Ateneo della Università La Sapienza di Roma, l’altra sera; che bella sera. Saranno in trecento, seduti, in piedi, accoccolati, compressi, semiesclusi, defilati, profilati, occhi di sguincio che scavallano teste, spalle per vedere, sbirciare l’imponenza solare di questo buffo mistero d’uomo che ha «visto un re che piangeva, seduto sulla sella». E gli hanno dato il Nobel, facendo schiattare d’invidia e di rancore una massa di poeti e scrittori devoti alla santità della loro trascendente, dolorosa densità. Ma questo un bel giorno ha visto un re che piangeva su una sella e un «vilan» (un contadino) che invece rideva: non capita a tutti e nemmeno tutti i giorni. Un momento: si diceva del pubblico. A parte qualche mezz’età in ordine sparso, la massa non superava di media i vent’anni. Tutti studenti universitari, niente rughe e molti capelli, ci giureremmo nemmeno seni rifatti. Una platea «nature», vergine per certi aspetti non sessuali, tenuta a non avere memoria o meglio coscienza di quel che è successo negli ultimi quarant’anni per le strade, nelle piazze, nei consigli di fabbrica, «nei campi e nelle officine» (grazie Paolo Pietrangeli, c’era anche lui). Tutta gente cresciuta nel mare della «disillusao», allevata con mangimi televisivi abbastanza crudeli, uno soprattutto, bastardo e vigliacco che suona così: sei solo al mondo e ci resterai perché ogni volta che ti muovi in compagnia fai solo disastri. Che ne sanno loro di Ci ragiono e canto? Conviene spiegare intanto perché una adeguata rappresentanza di quella pazzesca operazione cultural-politico-teatral-didascalica andata in scena con gran scandalo nell’Italia del lontano 1966 (sui tempi aveva ragione Franca) stava lì davanti a quei ragazzi. Dario Fo, con Franca Rame, era la fionda di quella impresa che voleva raccontare il tempo che passa portando sul palco i canti, i movimenti, i gesti ritmici dei lavoratori. Lui sapeva di teatro e anche di scrittura, gli altri – musicisti, musicologi, ricercatori e interpreti che erano tutte queste cose insieme – si fidavano. Gli altri erano: Michele Straniero, Giovanna Marini, Ivan Della Mea, Paolo Pietrangeli, i Piadena, Fausto Amodei, Rosa Balistreri, Paolo Ciarchi, Giovanna Daffini, il coro del Galletto di Gallura… Era l’anima del Nuovo Canzoniere Italiano, attorno al quale girava un altro mucchio di bella gente, a cominciare da Jannacci. Era anche il demonio, per il potere e per il sistema di allora e anche per quello radiotelevisivo di adesso, visto che le tracce di questa meraviglia hanno ancora una circolazione quasi carbonara. Così, una sedia per Dario, altre per Giovanna Marini, Paolo Pietrangeli, Fausto Amodei, i Piadena con annessi i ragazzi del coro del Testaccio. Il fatto è che quella fila di seggiole chiudeva la seconda giornata dedicata dall’ateneo romano alle celebrazioni per il cinquantenario della insopprimibile storia umana e professionale di Dario e Franca assieme. Ieri, c’era la festa delle feste e ve la racconta Rossella Battisti qui sotto. Non vi abbiamo ancora detto: a tutti gli studenti che partecipavano alla serata sono stati dati dei crediti, come fosse un seminario – lo era – per cui era attivo un amo istituzionale molto interessante. Era meglio per loro se c’erano, quindi, ma da quel che hanno fatto e cantato e scoperto con gioia, se i loro corsi vanno avanti così quei ragazzi, nonostante i tempi grami, saranno più ricchi di felicità che di crediti. Tra l’altro, prima che Dario si sganciasse dalla platea, aveva appena finito di applaudire una messinscena (Il finto marito) di Flaminio Scala, diretta da Ferruccio Marotti e interpretata con sapienza e stoffa di prima qualità dagli studenti dell’Università romana. Un pezzo di commedia dell’arte, la nostra anima più profonda e trascurata, che può tranquillamente girare i palchi del mondo per professionalità ed equilibrio: gli inglesi saranno i migliori a mettere in scena Shakespeare, ma ci vuole tutta la malizia italica per tenere in piedi uno spettacolo dell’iperbole fisica, avvincente, comica e folk come un rotocalco popolare.
Un po’ come Ci ragiono e canto. Dove l’invenzione, la creazione, tagliavano la strada alla filologia, al rispetto delle fonti, dei fatti ma allegramente, come si conviene a chi è convinto che si può cambiare il mondo agitando una bandiera simbolo di «un’idea d’amor». Allora, converrà trasmettere a reti unificate l’interpretazione che Dario ha offerto di Ho visto un re, sua creatura e per quanto ci riguarda la più bella canzone italiana di sempre. Faceva tutto: il coro, la musica, parte del testo – cantava l’immenso Delio dei Piadena – mentre il pubblico, Franca su tutti, accordava «Ah beh, sì beh». Ma che ne sanno loro? Bastava, tra la folla, la presenza di Vincenzo Vita, assessore alla cultura della Provincia di Roma, con la memoria di un buon compagno, unico politico presente a trascinare il resto della banda? E ridevano, infatti, sorpresi dalla gabola che investe il contadino, quello che è meglio che non pianga, altrimenti fa soffrire il ricco, il vescovo, il re, l’imperatore, la crema sensibile della high society. Giovanna Marini, dal canto suo, è la Memoria del gruppone e, capelli bianchi chitarra in mano, con la sua incredibile voce, spiega, canta, intona, presenta, racconta. Fredda e sapiente, quanto Paolo Pietrangeli è caldo, quanto Amodei è diabolicamente ironico – quel lazzarone del Della Mea aveva un appuntamento col medico, succede – quanto i Piadena sono angeli la cui anima è il corpo. Chi sono? Cosa stanno facendo, da che pianeta vengono? Prendi Amodei: è l’autore di Per i morti di Reggio Emilia e la canta perché sennò Franca lo randella ma l’ottanta per cento di quelli che la conoscono è convinto che sia «di anonimo». Come Paolo, che è l’autore di Contessa, un brano bellissimo che per troppi è «di anonimo». Fortuna che anche Paolo canta la sua politicamente scorretta Contessa dopo aver intonato quello splendore del Vestito di Rossini. Mentre Dario è sempre lì che accompagna. Dimenticavo di dirvi che si è intravvisto un microfono per qualche minuto ma che poi è scomparso: un live senza amplificazione. Dimenticavo anche di raccontarvi che è la serata finita mentre da una standing ovation è uscita spontanea una «Bandiera rossa» che, ragionando e cantando, ha fatto venire il groppo in gola a un mucchio di gente a caccia di un vecchio tarlo del pensiero: un’altra vita è possibile, se ci si crede e non si sta da soli.