Intervista ad Emiliano Brancaccio * su economia, Banca d’Italia e prospettive a sinistra

Sul Corriere, Dario di Vico scrive di Fazio: “Ha pensato di poter congelare il sistema creditizio e rinviare sine die l’apertura agli stranieri. Da keynesiano vecchio stampo (…) il governatore è stato il più pervicace degli interventisti. Ed è caduto perché alla fine ha creduto che si potesse fermare il vento della globalizzazione con le mani di Fiorani”. Come giudichi questa interpretazione, proposta dalle colonne del più autorevole quotidiano italiano?

Il Corriere sembra peggiorato molto, in questi anni. Un chiaro segno di decadimento mi pare il fatto che si pubblichi un editoriale in cui si definisce Antonio Fazio un “keynesiano”. Lo trovo francamente ridicolo. A titolo di smentita, basterebbe ricordare le scelte di Fazio negli anni della famigerata “corsa per l’ingresso in Europa”. In quegli anni i lavoratori italiani accettarono il sacrificio della concertazione e della conseguente compressione dei salari monetari, al fine di determinare il calo dell’inflazione necessario per star dentro i parametri di Maastricht. Fazio tuttavia decise di comportarsi in modo non accomodante rispetto alla concertazione. Preferì infatti mantenere i tassi d’interesse monetari a livelli molto alti, provocando in questo modo un incremento straordinario dei tassi d’interesse reali, ossia dei tassi al netto dell’inflazione. Quella scelta, spaventosamente restrittiva, il sistema produttivo italiano la sta ancora pagando. Ben altro discorso sarebbe quello di valutare le decisioni di Fazio in merito alla “protezione” del sistema bancario italiano contro l’ingresso dei capitali esteri. Non so dire se e in che misura il governatore sia stato sempre coerente con questo obiettivo. Di sicuro c’erano ottime ragioni per perseguirlo, a cominciare dal fatto che mentre le partecipazioni straniere nei capitali bancari italiani crescono da tempo, quelle italiane all’estero risultano di entità poco più che trascurabile. La globalizzazione di cui parla l’editorialista del Corriere, insomma, genera concentrazioni progressive di capitali, ed è sempre a senso unico.

Mario Draghi è il nuovo governatore della Banca d’Italia. Cirino Pomicino, alludendo al suo incarico di vicepresidente della Goldman Sachs, sostiene che la nomina di Draghi costituisce un segnale chiaro alla finanza internazionale: “l’Italia è definitivamente in vendita”. Quali sono le tue impressioni?

A prima vista si direbbe che la nomina di Draghi agisce in controtendenza rispetto all’operato di Fazio. Draghi è sempre stato un acceso sostenitore del processo di integrazione finanziaria europea. Direi che la globalizzazione a senso unico adesso ha la strada spianata.

Draghi sarà il primo a fare i conti, sin dall’inizio del proprio mandato, col trasferimento di poteri alla Banca Centrale Europea, che da poco ha deciso una stretta monetaria alzando i tassi al 2,25%. Quale sarà il rapporto con l’istituto centrale europeo?

Vale la pena di ricordare che nell’ambito del Sistema europeo delle banche centrali, i governatori nazionali rappresentano la maggioranza del Consiglio direttivo della Bce, e quindi contribuiscono in modo decisivo alla definizione degli indirizzi di politica monetaria dell’istituto centrale. Anche dopo la riforma della Banca d’Italia, dunque, è bene tener presente che il governatore nazionale è e resta un membro fondamentale del board dell’istituzione monetaria europea. Non mi sembra tuttavia che nella fase di selezione dei candidati governatori si fosse sviluppato un dibattito pubblico riguardo alle loro intenzioni in tema di politica dei tassi d’interesse, di rapporto cooperativo o conflittuale con i governi nazionali, di gestione del cambio, di concorrenza o meno con il dollaro per la conquista del ruolo di riserva internazionale. Di fatto, Draghi ha potuto insediarsi al vertice di palazzo Koch senza dirci assolutamente nulla su quale sarà il suo orientamento di politica monetaria in seno alla Bce. Questo risultato, profondamente anti-democratico, dovrebbe far riflettere soprattutto la sinistra, dal momento che le decisioni di Draghi e degli altri membri del board incideranno sulle strategie future della Banca centrale europea, e quindi sul vissuto quotidiano di milioni di cittadini e lavoratori, italiani ed europei.

Cosa mette in luce l’arresto di Fiorani? In che contesto si inseriscono i tentativi di scalata ad Antonveneta e a Bnl?

Fin dai tempi della scalata di Colaninno a Telecom si sapeva che una certa finanza emergente stava cercando di organizzarsi al fine di aprire spazi di manovra tra i vecchi assetti di potere del capitalismo italiano. Questi finanzieri di nuova generazione hanno trovato sponde politiche in più direzioni. Da parte di chi, in ambito istituzionale, intendeva rafforzare il sistema finanziario nazionale di fronte agli impetuosi processi di integrazione europea, e anche da parte di chi, in ambito più strettamente partitico, cercava di affrancarsi da una sudditanza storica nei confronti dei cosiddetti “salotti buoni”. Questa strategia di riorganizzazione a quanto pare è fallita. Più che agli illeciti scoperti dalla magistratura, tuttavia, credo che questo esito si debba al fatto che è diventato sempre più difficile muoversi controcorrente rispetto alla imponente dinamica delle ristrutturazioni e delle concentrazioni europee. Penso infatti che le incursioni dei capitali trans-nazionali siano solo cominciate, e che investiranno sempre più anche gli stessi salotti buoni. Insomma, se qualcuno si illudeva che una volta avviata l’unificazione monetaria si potessero governare politicamente i processi conseguenti, e magari si potessero sfruttare nuove nicchie di potere politico-finanziario, evidentemente dovrà ricredersi. La meccanica capitalistica in atto indebolisce in modo inesorabile le istituzioni democratiche, soprattutto i partiti. Se questi ultimi continueranno a snobbare il rapporto con le masse, se continueranno ad affannarsi maldestramente dietro le trame del capitale, è ragionevole credere che si ridurranno presto al ruolo di mere lobbies “alla luce del sole”, come negli Stati Uniti.

Passiamo ai temi più direttamente politici. I tavoli programmatici dell’Unione sono stati, a detta di tutti i leader dei partiti, un successo. Ma sembra non si riesca a produrre molto più che formule verbali. La carta d’intenti dell’Unione, sottoscritta da milioni di cittadini all’atto della partecipazione alle primarie, risolveva i contrasti con uno slogan dal significato incerto: “Più Stato più mercato”. Nell’incontro tra i segretari di partito a San Martino in Campo pare che proprio sui temi economici e sulla diatriba tra sostegno allo sviluppo e risanamento l’accordo fosse ancora lontano. Quale programma economico si prospetta, a tuo parere, per il prossimo governo di centrosinistra?

Tu mi citi degli esempi di schizofrenia politica. Tuttavia si tratta di una schizofrenia solo apparente. Di fatto, all’interno dell’Unione sussiste un’ampia coalizione di forze che intende fare della concertazione salariale, dell’abbattimento del debito pubblico, delle liberalizzazioni e dell’acritica apertura al capitale europeo gli assi portanti della strategia politica di un eventuale, futuro governo di centrosinistra. La sinistra dell’Unione non è mai stata in grado, in questi mesi, di definire un progetto alternativo per il paese, da contrapporre dialetticamente a quello degli alleati. Al di là dell’evidente squilibrio nei rapporti di forza, la carenza di progettualità è un problema che investe l’intera sinistra di alternativa, in tutta Europa. Le soluzioni finora trovate sono carenti, di corto respiro. Per quel che riguarda le sinistre dei paesi membri dell’Unione, io credo che i No francese e olandese ai referendum sulla Costituzione europea potrebbero aiutare a fare chiarezza. Più precisamente, da tempo sostengo che la sinistra di alternativa dovrebbe trovare il modo di inserirsi dialetticamente nel processo di unificazione europea prima che sia troppo tardi, ovvero prima che l’Unione monetaria assuma definitivamente i caratteri del capitalismo americano, per giunta in assenza di uno stato federale degno di questo nome. Un inserimento realmente dialettico nei processi in corso implica tuttavia dei costi, dei rischi. Inoltre, essendo a tutt’oggi ben lontani da un reale coordinamento europeo delle lotte, un’azione dialettica può al momento partire solo dal livello nazionale. Ad esempio, ho più volte dichiarato che la sinistra dovrebbe ammettere, tra le opzioni strategiche possibili, quella che ho definito del “battitore libero”. Questa strategia consisterebbe nello spingere la politica economica di un singolo paese membro in direzione contraria rispetto a quella stabilita dalle istituzioni europee, ed imposta di fatto dai grandi interessi capitalistici del continente. Ciò significa che all’interno di un singolo paese membro bisognerebbe esercitare pressioni per l’attivazione di spinte sul salario per unità di prodotto e sulla quota di disavanzo destinata alla spesa sociale, spinte in grado di agire in modo contraddittorio rispetto all’attuale funzionamento macroeconomico dell’Unione monetaria. Mi rendo conto che si tratta di un sentiero impervio e rischioso, che mette in gioco tra l’altro lo stesso processo di costruzione europea. Ma bisogna al tempo stesso rendersi conto che non c’è alternativa ad esso: in assenza di pressioni sociali non ci si può certo illudere che l’Europa cambi strada.

Sostieni dunque che la sinistra d’alternativa debba farsi carico, a partire dai temi della politica economica, della costruzione di un programma alternativo per il Paese pena la sua subalternità nei confronti delle posizioni moderate oggi prevalenti nell’Unione. Ci puoi indicare alcune priorità concrete, intorno alle quali è ipotizzabile anche costruire momenti di mobilitazione e di conflitto?

Al di là delle pile di buoni propositi che usciranno dal programma comune, credo che per attivare una spinta sul salario per unità di prodotto e sul disavanzo destinato alla spesa sociale bisognerebbe agire nelle seguenti direzioni, tutte tese a favorire la mobilitazione dal basso, ad aprire varchi nei quali l’azione dei movimenti sociali organizzati possa farsi sentire. In primo luogo occorrerebbe metter da parte le ipocrisie, e rileggere criticamente non la figlia, la legge Biagi, ma il padre, ovvero il pacchetto Treu. In secondo luogo occorrerebbe esercitare continue pressioni nella direzione della democrazia sindacale e parlamentare, promovendo la massima partecipazione decisionale dei lavoratori sui contratti e contrastando qualsiasi ipotesi di “blindatura” delle finanziarie nazionali e locali. Vorrei precisare che l’eventualità di una blindatura non è affatto remota. Basti ricordare che nella scorsa legislatura Forza Italia e i Ds sono stati prossimi ad un accordo, in tal senso.

* docente di macroeconomia presso l’Università del Sannio