Angela Davis rappresenta una figura di spicco del movimento di liberazione della comunità afroamericana e, più in generale, nei movimenti di opposizione degli U.S.A.
Militante a 18 anni del Partito Comunista degli Stati Uniti d’America, aderisce successivamente anche all’esperienza del Black Panthers Party e promuove grandi mobilitazioni in solidarietà dei Fratelli di Soledad e dei detenuti politici Neri.
La sua attività politica provoca un pesante accanimento giudiziario nei suoi confronti: Angela conoscerà anche la prigione, da cui uscirà grazie ad una vasta campagna internazionale per la sua liberazione che vedrà il coinvolgimento di numerose forze progressiste negli Stati Uniti e nel mondo.
Dirigente politica, studiosa e autrice di numerosi libri (tra cui non può non essere ricordata la bellissima “Autobiografia di una rivoluzionaria”), oggi Angela Davis è particolarmente impegnata nella lotta contro la pena di morte e il complesso militare- industriale- carcerario americano.
Questa intervista è stata originalmente pubblicata sul numero di “Red” (periodico della Jeunesse Communiste Révolutionnaire) del gennaio 2006. (N.d.T.)
Cosa pensi della rivolta dei giovani banlieusard che ha avuto luogo nelle periferie francesi?
Tale rivolta presenta delle grandi similitudini con i tumulti che si producono nei ghetti statunitensi.
Gli ultimi tumulti di una certa rilevanza hanno avuto luogo a Los Angeles e avevano le loro radici nello stesso sentimento di frustrazione proprio dei giovani afroamericani.
Negli Stati Uniti come in Francia, tali avvenimenti hanno le stesse origini e necessitano dello stesso tipo di risposte, pur esistendo delle differenze legate alle storie diverse dei ghetti americani e delle banlieues francesi.
I giovani esigono dei cambiamenti sociali e la fine della ghettizzazione e delle discriminazioni verso le comunità dell’immigrazione post- coloniale.
Ci si rende conto del razzismo e della sua insopportabilità.
Negli U.S.A. i giovani dei ghetti reclamano la fine di un sistema che è il prodotto del passato schiavista del Paese. Queste rivolte non sono affatto isolate dalla lotta globale condotta quotidianamente da milioni di uomini e di donne.
Come la situazione economica, politica e sociale dei quartieri popolari è conseguenza delle politiche del FMI e della Banca Mondiale, così le rivolte spontanee dei nostri fratelli nei quartieri sono una conseguenza diretta di tali politiche.
E se i dirigenti hanno una strategia per il controllo del pianeta, è nostro compito svilupparne una alternativa e le rivolte dei ghetti devono farne parte.
Ciò che emerge da tutte queste ribellioni che prendono forma nei tumulti è la fragilità della loro direzione politica.
All’epoca dei tumulti che investirono Watts, in America nel 1965, ciò era molto chiaro a qualunque afroamericano che avesse preso parte al movimento dei diritti civili che si era sviluppato in quegli anni.
La nascita del Black Panthers Party, nel 1966, rappresentò uno sbocco positivo per queste rivolte, perché il partito fu uno strumento utile per fare della frustrazione dei giovani Neri americani un’arma politica.
Tu hai passato un periodo della tua vita in prigione, durante gli anni ’70, e, oggi, sei impegnata particolarmente nella mobilitazione contro il sistema detentivo e la pena di morte negli U.S.A. . Qual è la tua analisi in merito?
La questione sarà l’argomento del mio prossimo libro, in particolare a partire dal Patriot Act.
L’industria bellica e le istituzioni militari sono due elementi centrali dell’economia americana, in relazione con le imprese, i mass media, i politici e le alte gerarchie militari.
In questo quadro, le prigioni sono diventate un dato essenziale dell’economia nazionale.
Negli U.S.A. ci sono due milioni di persone imprigionate, tale fenomeno è il risultato di una consapevole politica detentiva e punitiva.
Ciò va analizzato nel quadro di un complesso sistema politico ed economico che si perpetua da lungo tempo e che è il prodotto dello schiavismo, nel suo intreccio tra privazione delle libertà personali e sfruttamento intensivo della forza lavoro.
La punizione e la privazione della libertà sono delle armi storiche negli U.S.A. sia sul piano ideologico che economico.
Questo sistema permette l’insorgere della paura, della repressione e del razzismo.
In riferimento alla società statunitense, si può parlare di “complesso industriale- carcerario”.
A livello internazionale, anche la politica estera degli Stati Uniti è largamente fondata sul concetto di punizione, di repressione: l’utilizzo della tortura a Guantanamo e ad Abu Ghraib è la conseguenza diretta della gestione interna delle carceri e della politica, dagli U.S.A. dentro i propri confini, in materia di razzismo.
Il posto occupato dall’industria carceraria nell’economia mondiale diviene sempre più centrale.
Attraverso e grazie ad essa , vi è una vera e propria ideologia che sta diventando egemone, e di fronte a ciò, è necessario costruire un vasto movimento contro colui che la incarna: George W. Bush.
La guerra al terrorismo che egli ha intrapreso ha costituito un trampolino di lancio per lo sviluppo di questa politica e questa ideologia ma oggi, di fronte a quanto emerso dopo l’uragano Katrina in termini di razzismo, di fobia securitaria e di “caccia ai poveri”, il Presidente è molto indebolito.
Dobbiamo proseguire la lotta.
Tu parli dello schiavismo come di una logica economica e ideologica ancora dominate negli Stati Uniti. Qual è la tua opinione a proposito della legge francese del 23 febbraio 2005 che riabilita il colonialismo?
Il razzismo cresce.
Oggi voi vivete in stato di emergenza, e io mi ricordo che cosa ciò significava nel 1961, quando mi trovavo a Parigi per i miei studi: gli algerini erano vittime di un razzismo che mi aveva fatto pensare al sistema segregazionista americano.
Dichiarare oggi che il colonialismo ha avuto un ruolo positivo significa fare un’affermazione abietta e razzista.
Sfortunatamente ciò dimostra che la crescita dell’estrema destra è una realtà anche in Francia e non solo negli Stati Uniti.
Inoltre, tutta la politica francese sembra essere impregnata di razzismo, e questo è un problema la cui risoluzione è prioritaria per tutti coloro che vogliono un cambiamento sociale.
Stanley “Tookie” Williams è stato ucciso attraverso un’iniezione letale lo scorso lunedì /12 dicembre 2005) in California.
A tutti coloro che avevano domandato la sua grazia, Schwarzenegger, governatore dello Stato, ha risposto che egli non poteva graziare un uomo che aveva dedicato le sue memorie a persone come Angela Davis, George Jackson, Malcolm X, Nelson Mandela ecc..
Dopo una dichiarazione di questo tipo, non credi che l’esecuzione di Tookie Williams rappresenti un vero e proprio atto politico contro il Movimento dei Neri americani?
Questa esecuzione mi ha enormemente sconvolta.
Dal momento in cui Tookie è stato condannato a morte, nel 1981, si è sviluppata negli U.S.A. una grande campagna di solidarietà.
Io ero nella prigione ed ho assistito alla dichiarazione di Schwarzenegger.
E’ stata la prima volta che un condannato è stato giustiziato nonostante le dimensioni della campagna che si era sviluppata a suo favore.
Non pensiamo che l’esecuzione sia stata eseguita perché il caso di Tookie ha risollevato la polemica sulla pena capitale.
Schwarzenegger, concludendo la sua dichiarazione, affermava che non poteva graziare un uomo che assumeva la violenza come programma politico.
La pena di morte si è rivelata essere uno strumento politico per rispondere con la violenza ai problemi sociali sollevati, concretamente e simbolicamente, da Tookie.
Quello di Schwarzenegger è stato nei fatti un atto politico contro il Movimento internazionale di liberazione dei Neri e la sua storia, soprattutto perché egli ha citato anche Nelson Mandela.
Schwarzenegger lo ha citato come una persona di cui non si può parlare come di un eroe, nonostante Mandela sia considerato tale dalla maggioranza delle persone e dei popoli di tutto il mondo.
E, ancora, citando Mumia Abu Jamal e altre figure che incarnano nella nostra epoca degli esempi di ribellione, Schwarzenegger ha fatto un processo politico a tutti coloro che si oppongono alla sua politica ed a quella di Bush.
Questo dimostra la relazione esistente tra la pena capitale e la guerra contro il terrorismo.
Tu ti definisci una militante femminista. Cosa significa essere femminista oggi e quali sono i compiti odierni del movimento delle donne?
Questo argomento mi sta molto a cuore.
Ma ti avviso che la mia definizione di femminismo non è molto convenzionale.
Io concepisco il femminismo come uno strumento non solamente per trattare le questioni di genere ma anche per affrontare l’insieme delle questioni politiche senza essere limitata dalle frontiere ideologiche stabilite dal sistema capitalista.
Per esempio, non ho alcuna lotta o analisi comune con Condoleeza Rice, nonostante lei sia una donna nera come me.
Secondo me, è necessario articolare un pensiero che tenga in considerazione il genere, la razza, la sessualità e la classe.
Non bisogna considerare come distinti, nelle lotte, i problemi degli uomini da quelli delle donne.
Il femminismo è per me uno strumento di analisi che mi permette, per esempio, di individuare dei legami tra la pena capitale negli U.S.A. e la guerra contro il terrorismo.
E di considerare il ruolo delle donne come uguale a quello degli uomini e soprattutto di superare gli schemi imposti dal sistema che ci obbligano ad identificarci con una categoria sessuale, razziale o di altra natura, e che non ci permette di risolvere la contraddizione nella quale io mi trovo di fronte a Condoleeza Rice.
Logicamente, c’è un dibattito aspro all’interno del movimento femminista, ed io sono contraria agli schemi del femminismo che si richiamano all’ “universalità” della lotta nell’interesse di tutte le donne.
Effettivamente, in questo caso, “universale” significa “bianco” e, quindi, non è assolutamente universale.
Io spingo questa analisi nel movimento delle donne e soprattutto nel campo marxista.
Il mio obiettivo è costruire il socialismo.
E il marxismo è lo strumento che mi permette di conseguire questo fine nella vita e nelle lotte di tutti i giorni.
Ancora oggi, intervistare Angela Davis è un evento importante per ogni militante perchè tu fai tuttora parte, dopo tanti anni, del campo di coloro che combattono contro il sistema attuale.
Dove trovi le ragioni per proseguire la tua battaglia?
Non sono un’icona, io sono una persona qualunque che continua a lottare, ma se un’immagine mi è rimasta incollata alla pelle è quella del Movimento dei Neri americani.
Se è ciò che trasforma un incontro con me in un evento, allora la lotta che noi abbiamo condotto e stiamo conducendo da lungo tempo, rappresenta una fonte di ispirazione per le nuove generazioni.
E ciò significa che non ci siamo battuti invano.
E’ infatti nelle nuove generazioni che trovo, dopo tanti anni, la forza e l’entusiasmo per continuare.
E’ sempre stato così, anche quando io stessa ero giovane.
Oggi assistiamo, e secondo me è estremamente importante, a una grande effervescenza politica e intellettuale di una nuova leva di giovani che cercano strade originali e creative per trasformare il mondo.
Questa nuova generazione vuole cambiare l’esistente ed il socialismo ha bisogno delle sue lotte per edificarsi.
Non ho mai cambiato i miei obiettivi e la gioventù oggi è più ribelle che mai.
E’ lei che mi permette di avanzare.
Da “Red” del gennaio 2006, traduzione di Alyosha Matella