Intervista a Naomi Klein, arriva in Italia “The Take”

Ok, questo mondo ci fa schifo e non vogliamo partecipare al progetto di capitalismo globale. Siamo pronti a protestare, a scendere in piazza. Ma dopo, che facciamo?
E’ la domanda che Naomi Klein, all’indomani dell’uscita del suo saggio “No Logo: economia globale e nuova contestazione” si è sentita insistentemente ripetere dai più giovani sostenitori delle sue tesi. Ed essendo una canadese dal piglio pragmatico (i genitori del resto sono americani) ha preso armi e bagagli ed è partita alla ricerca di una risposta possibile.

Dal sua caparbietà e dal lavoro di regista militante del suo compagno, Avi Lewis, è venuto fuori “The Take”, documentario sull’occupazione di alcune fabbriche nell’Argentina post-crisi che Fandango porta da oggi nelle sale italiane.

“La toma”, la presa, l’occupazione, della Zanon Ceramics, della Bruckman, della Forjia. Nel 2001 decine di fabbriche argentine bastonate dalla crisi vengono abbandonate dai loro proprietari che dichiarano bancarotta e se ne fuggono con quello che è rimasto in cassa. Restano al palo e alla fame gli operai e le operaie. Un paese in crisi nera, loro senza lavoro, i figli letteralmente senza pane. E allora decidono di occupare, resistere e ricominciare a produrre.

Non lo sciopero, ma il contro-sciopero, non l’incrocio delle braccia ma la rimessa in funzione delle macchine e della produzione. Accanto a loro, un gruppetto prima esiguo poi crescente di avvocati che tentano di rendere legale l’occupazione e di ufficializzare la ripresa della produzione in mano agli operai. Il movimento inizia nel 2001. Naomi Klein e Avi Lewis arrivano in Argentina un anno e mezzo dopo. Si piazzano a controllare una ventina di fabbriche in subbuglio e poi trovano quella in cui sta per iniziare una nuova occupazione. E’ la Forja di Buenos Aires e la minitroupe di Lewis si piazza per tre giorni e tre notti consecutivi in fabbrica. Per far vedere non solo il sommovimento iniziale della “presa”, ma anche quello che succede dopo. «Volevamo uscire da quella che io definisco una sorta di “pornografia della protesta” – ci spiegano Naomi e Avy, che a noi di Liberazione ormai ci riconoscono e ci salutano con calore – quella che mostra solo il sangue, gli scontri, i sassi degli operai e le pistole dei poliziotti. In The Take c’è anche quello. Ma l’importante è non fare come fanno i media televisivi, che dopo due giorni di chiasso se ne vanno da un’altra parte. L’importante è restare sui posti e vedere cosa succede dopo».

Soprattutto se vuoi dare una risposta, anche visiva, alla domanda che i giovani vi pongono.

Esatto. Volevamo mostrare loro come avviene un cambiamento sociale vero. Far vedere il processo di discussione, incontro e decisione che è dietro quelle occupazioni. E il risultato, ovvero la ripresa dell’attività della fabbrica, gli operai e le operaie che tornano ai loro posti di lavoro e che anzi dopo qualche mese addirittura assumono. E il popolo che è loro intorno e che li appoggia. Anche i benpensanti, quelli che di solito guardano agli operai in sciopero con un po’ di disprezzo o sufficienza, vederli cambiare opinione, appoggiare l’autogestione. Questo è quello che succede dopo. Questo è quello che è successo.

So che l’esempio di Buenos Aires si è esteso al resto dell’Argentina e poi dell’America Latina.

In America Latina, soprattutto dopo i cambi di governo in Argentina, in Uruguay, in Venezuela, ovunque ci siano bancarotte i lavoratori chiedono di seguire lo stesso modello delle fabbriche di Buenos Aires. Ma la voce si è diffusa ovunque. Lo stesso avviene in Irlanda, in Canada. E in questi giorni veniamo dalla Francia, da incontri con i lavoratori francesi che sono rimasti molto impressionati da The Take e hanno intenzione di farne tesoro.

E’ un buon esempio di come una protesta locale si possa globalizzare, attraverso anche un’informazione non ufficiale. So che internet, per la diffusione di “The Take” e della battaglia iniziata in Argentina ha avuto un ruolo centrale. E’ così?

Sì. E ti dico i siti. Su thetake. org puoi trovare non solo la situazione aggiornata delle fabbriche, ma anche una serie di iniziative parallele. C’è una raccolta di firme in sostegno alle occupazioni e c’è persino un fondo-prestiti per gli operai in difficoltà. Mentre sul sito lavaca. org, un gruppo molto forte di giornalisti indipendenti latino-americani ha compilato una sorta di enciclopedia delle fabbriche occupate e della loro condizione.

E dal punto di vista legale, la battaglia come sta procedendo? Mi ricordo che i legali degli operai stavano chiedendo, alla fine dello scorso anno, una sorta di legalizzazione della proprietà dei lavoratori, in modo che non corressero rischi di sgombero…

Le cose sono andate molto avanti. A Buenos Aires una legge comunale del dicembre scorso ha decretato che le fabbriche in bancarotta, per venti anni sono di proprietà degli operai che le riportano in funzione. Ed è diventata legge anche la richiesta di vedere i lavoratori e le lavoratrici come primi creditori, prima ancora che le macchine vengano messe all’asta o vendute. A livello nazionale, una legge simile è stata già approvata dalla Camera e ora aspetta la discussione al Senato. Se dovesse passare, sarebbe una vera rivoluzione. Stesso tipo di legge stanno chiedendo tutti i movimenti di lavoratori in Venezuela, Uruguay e Messico.

Il Canada ultimamente, con documentari come “The Corporation” e “The Take” sta rispolverando la sua tradizione di paese produttore di ottimi lavori documentari. Una sorta di riscatto nei confronti dei ivicini e ingombranti Usa?

La nostra tradizione di documentaristi è molto forte e in questo caso viene riconfermata. Poi, grazie al cielo, viviamo in un paese che, per quanto subisca l’influenza nordamericana, ha saputo mantenere alcuni punti fermi come la gestione pubblica della sanità, una certa garanzia nel mondo del lavoro, una libertà di informazione e di espressione del pensiero, la legalizzazione dei matrimoni per gay e lesbiche. Non è un caso che, negli anni della guerra in Vietnam, decine di migliaia di americani decisero di trasferirsi da noi. E lo stesso sta accadendo in questi mesi, con la follia della guerra in Iraq. Molti liberal americani stanno decidendo di venire a vivere in Canada.

Questa sera (ieri, per il lettore, ndr) all’anteprima romana del film avete invitato, o si sono autoinvitati, i devoti di San Precario. Cosa ne pensate di questo martire del non-lavoro italiano?

Mi sembra un movimento assolutamente in sintonia con le nostre riflessioni. I giovani di Genova oggi lavorano per san Precario, per i senza-lavoro, per i migranti. Si organizzano come un nuovo movimento dei lavoratori. Il movimento globale si è rilocalizzato, come è giusto che sia, senza perdere la sua connessione internazionale. La questione del resto è proprio quella che pongono loro. Non combattiamo più solo per i diritti umani ma anche per quelli economici. Che me ne faccio del diritto di voto se non ho il diritto al lavoro? Lo gridano i lavoratori latinoamericani e lo gridano allo stesso modo i collettivi di san Precario.

Tanto per chiudere in bellezza… simpatica l’elezione di Wolfowitz alla banca Mondiale, vero?

Sono totalmente d’accordo con questa nomina, mi sembra una scelta perfetta. Toglie finalmente la maschera sulla reale connessione tra guerra e sistema economico. Bene, finalmente le cose sono chiare. E poi, diciamocelo, è molto meglio di Bono.