Qual è la tua valutazione sul meccanismo delle elezioni primarie come strumento di scelta della leadership del centrosinistra? Intravedi il rischio, attraverso le primarie, di rafforzare una cultura ed una pratica politica maggioritaria e presidenzialistica (come ha scritto Chiarante sul manifesto del 3/7)? Ed inoltre, anche superando l’incongruenza strategica tra il sistema-primarie ed il nostro tradizionale orizzonte politico, da un punto di vista della tattica (alla quale ci richiama Rina Gagliardi su Liberazione del 6/7) queste primarie possono portare benefici alla sinistra d’alternativa?
Il mio giudizio sulle “primarie” resta molto negativo: sono uno strumento che è proprio di una struttura istituzionale bipartitica e, quindi, la loro pratica tende inevitabilmente a favorire una modifica dell’impianto costituzionale su cui è retto il nostro paese. Basti pensare che nella recente Camera di Consultazione uno degli oratori, Ginzburg, ha avanzato la proposta di estendere le primarie ai singoli collegi uninominali. Una volta avviato, questo processo rischia di dilagare a tutti i livelli istituzionali. La pericolosità è evidente perché il meccanismo porta a superare il confronto tra i partiti a beneficio di un confronto tra candidati favorendo la personalizzazione e fenomeni plebiscitari. Senza contare, come ha ben chiarito sul Manifesto Chiarante, che, una volta sposato questo sistema per incoronare il leader della coalizione democratica, è certamente più difficile opporsi – in occasione del futuro referendum – alle modifiche costituzionali introdotte dal centro destra e imperniate sull’elezione diretta del premier. Anche dal punto di vista tattico, i vantaggi di questa scelta sono assai discutibili. Tirare in ballo la vicenda pugliese mi sembra, a tale riguardo, una forzatura: in quel caso specifico ci si trovava di fronte a due candidati, uno dei quali, Boccia, partiva fortemente indebolito perché in precedenza non era stato riconosciuto dalla sua stessa parte politica. Oggi non esiste la possibilità, dati i rapporti di forza presenti nell’Unione, che vinca un candidato della sinistra d’alternativa. L’idea che il caso Vendola sia ripetibile è privo di qualsiasi logica. Inoltre, vi è un paradosso. La competizione è, infatti, del tutto virtuale, poiché i vari candidati hanno già riconosciuto in Prodi il leader della coalizione. Così la presentazione delle candidature diventa solo un modo per misurare i rapporti di forza delle varie forze politiche facenti parte della coalizione. Forse qualcuno s’illude, facendo così, di poter incidere sul programma dell’Unione o accarezza l’idea che si possa in tal modo ottenere una distribuzione degli eletti più favorevole al proprio partito, ma si tratta di tatticismi che non prendono in considerazione il fatto principale e cioè che l’unico vero dominus della vicenda è il candidato che risulterà vincente (e quindi Prodi) il quale avrà la possibilità di condizionare in modo decisivo il programma. D’altronde da che mondo è mondo – basti pensare agli Stati uniti – è assurdo pensare di poter separare la scelta dei candidati da quella del programma. Per cosa dovrebbero essere scelti? Per le loro facce? Infine, un’ultima considerazione che mi sembra, tuttavia, basilare. Lo strumento delle primarie, si voglia o no, azzera il ruolo dei movimenti. Tutta la prosopopea tesa a identificare le primarie con la partecipazione democratica non ha alcun senso. I cittadini, infatti, sono semplicemente chiamati ad esprimere la propria preferenza per alcuni candidati scelti dai partiti, senza essere mai stati coinvolti prima in un confronto sui contenuti. Dopo un simile esercizio, che spazio c’è per i movimenti per incidere sul programma? Il candidato è già stato legittimato; egli si è già espresso su alcuni contenuti fondamentali; né gli si può chiedere di rimettere in discussione elementi fondamentali della sua impostazione, giacché questo comporterebbe una diminutio del suo ruolo. A questo punto, ogni discussione coi movimenti parte già pesantemente condizionata. Sempre che qualcuno non pensi che i movimenti debbano scegliere le primarie come loro terreno principale d’intervento – magari privilegiando un candidato su altri – ma questa sarebbe la rinuncia ad ogni autonomia e, di fatto, la sanzione della loro marginalità.
Con l’obiettivo di dare una struttura organizzativa unitaria alle varie anime della sinistra d’alternativa ci sono attualmente in campo diverse ipotesi. Da un lato Pdci, Verdi ed una parte dei movimenti propongono una lista Arcobaleno per il 2006, dall’altro lato Folena, Occhetto, Tortorella e Rinaldini (insieme ad altri pezzi di movimento) costruiscono in questi giorni il forum “Uniti a Sinistra”, struttura dai più interpretata come ponte tra la sinistra ds e Rifondazione Comunista. E poi c’è la Camera di Consultazione, gli incontri tra le riviste: cosa bolle in pentola? Vedi all’orizzonte od auspichi la costruzione di nuovi soggetti politici a sinistra?
Questo proliferare di nuove sigle e aggregazioni è condizionato da due fattori. Il primo è rappresentato dalla necessità – oggettiva – di superare lo sbarramento del 4%. Nel caso di formazioni che si collocano al di sotto di questa soglia, come i Verdi o il PdCI, è logico che questi partiti puntino a realizzare un’aggregazione. Non c’è nulla di scandaloso in tutto ciò, ma francamente non mi pare opportuno giustificare questa operazione come il risultato di una sostanziale unità sul piano dei programmi o sulle prospettive politiche. Sono note le differenze fra queste forze politiche e pensare che una lista elettorale unitaria, dettata da uno stato di necessità, possa costituire il prodromo della nascita di un nuovo soggetto politico, mi pare poco credibile. Peraltro, non penso che l’unità della sinistra di alternativa – di cui peraltro c’è un vero bisogno – debba essere condizionata da accordi elettorali. Sarebbe bene, invece, separare il confronto sui contenuti – e quindi la ricerca di una piattaforma programmatica comune – da precipitazioni organizzative. Esse rischiano, specie se molto enfatizzate, di tradursi in delusioni. Vi è inoltre una considerazione banale ma di indubbio rilievo. Quando si mettono assieme sigle di partiti, associazioni, movimenti, costruendo una lista unitaria, è assai raro che il risultato elettorale sia soddisfacente. Infatti, tutte le esperienze compiute sino ad ora, a vari livelli istituzionali, hanno dimostrato che – abitualmente – il numero di voti ottenuto è inferiore alla somma teorica degli elettorati delle singole forze coinvolte. La ragione è semplice: queste operazioni improvvisate, a pochi mesi dalle elezioni, senza un reale background di pratiche comuni e di effettive convergenze, non risultano convincenti ed anzi tendono a produrre fenomeni di elisione reciproca di segmenti di elettorato diversi. Il secondo fattore che sta alla base di questa proliferazione di associazioni è rappresentato dalla necessità, in parte mascherata, di costruire convergenze intorno alla figura di singoli candidati. Si tratta insomma di “comitati elettorali” in fieri, costruiti appositamente per sostenere una candidatura che, si spera, possa ottenere un consenso tale da far recepire all’insieme della coalizione alcune istanze. Nel nostro caso si tratta di un’operazione che assegna allo strumento “primarie” un valore positivo – un’utile opportunità, si potrebbe dire – in quanto mezzo per condizionare il risultato complessivo, seppure da una posizione di minoranza. Valgono in questo caso le considerazioni che facevo poc’anzi. Si tratta di operazioni tattiche che sottovalutano gli effetti reali delle “primarie”, che costituiscono un mezzo, non per quantificare i diversi pesi elettorali ma per legittimare un leader e quindi un ben preciso punto di vista politico e programmatico. Di qui il rischio, più che fondato, che anziché riequilibrare a sinistra il programma dello schieramento, si finisca con il legittimarne le inclinazioni moderate.
Una battuta sul confronto programmatico. Come giudichi le profonde difficoltà, nel centrosinistra ma anche nella sinistra comunista e radicale, nell’impostare confronti serrati e proficui sul versante dell’impianto programmatico comune, per affrontare e vincere le elezioni del 2006? Ti convince l’idea di stabilire, come condizione per la partecipazione della sinistra d’alternativa ad un futuro possibile governo democratico, sulla base delle esigenze di tutti i movimenti che hanno animato il conflitto sociale in questi anni e sulla base anche delle esigenze materiali di milioni di lavoratori, giovani e precari, disoccupati e migranti, alcuni punti programmatici irrinunciabili (abrogazione leggi-vergogna di Berlusconi, no alla guerra senza se e senza ma, scala mobile)?
Mi limito ad una semplice constatazione: ormai sono mesi e mesi che si parla di confronto programmatico ma lo stesso non trova mai un luogo o un’occasione per essere avviato. Questo ritardo non può che essere spiegato con ragioni di tipo politico. All’interno della coalizione dell’Unione vi è, infatti, la comune consapevolezza che un confronto serio sul piano dei contenuti è destinato a fare emergere differenze rilevanti tra i vari partiti. La conseguenza è che tutti sono portati a rimandare il confronto programmatico nel timore che esso provochi la deflagrazione della coalizione. Questo processo coinvolge anche la sinistra d’alternativa, la quale non a caso – anziché avviare una battaglia politica sul piano dei contenuti – preferisce far leva sulle opportunità offerte dalle primarie. Si tratta, tuttavia, di una scelta miope. Come lo struzzo che nel caso di pericolo nasconde la testa sotto la sabbia, si rimanda al dopo il confronto sui nodi più delicati per timore che nell’immediato sia impossibile affrontare a viso aperto gli elementi di contrasto. Non ci si accorge, in questo modo, che via via che si procede attraverso la rimozione delle differenze, ci si avvicina al punto di non ritorno, in cui un qualche programma dovrà essere necessariamente licenziato, senza che vi sia stato il tempo per correggere impostazioni sbagliate o quantomeno per ottenere dei compromessi accettabili. Quello che è necessario, invece, è il coraggio di promuovere un dibattito limpido, senza reticenze e di carattere pubblico. Tutti devono sapere quali sono i diversi punti di vista e i contrasti non possono essere annegati nel bon ton. E qui veniamo per l’appunto alla questione decisiva dei contenuti di un programma di governo. Tali contenuti sono la base di un qualsiasi accordo ed è stupefacente constatare, invece, come gli stessi siano rimossi anche dalla sinistra di alternativa che si appende al carattere dinamico del confronto, o alla prevedibile spinta che eserciteranno i movimenti o ad apprezzamenti lusinghieri verso posizioni ambigue per giustificare – a priori – il proprio coinvolgimento nella compagine di governo. Si badi bene, non sto sostenendo che non vi sia la necessità di un’alleanza col centro sinistra, né teorizzo la ripetizione dell’esperienza già fallita della “desistenza”, ritengo invece che un qualsiasi coinvolgimento delle forze della sinistra critica debba discendere da un confronto di merito sui contenuti di un’azione di governo. E ciò vale, a maggior ragione, in quanto le differenze ci sono e non sono di poco conto. Per uscire dal vago, faccio degli esempi concreti. Il rifiuto esplicito della guerra va assunto o no? O vengono poste subordinate – come il carattere o meno umanitario degli interventi – che, come si è visto, finiscono col giustificare disegni imperialisti? Personalmente su questo punto sono dell’avviso che la sinistra di alternativa dovrebbe considerare non negoziabile il proprio rifiuto della guerra e considererei una mediazione che si attesti sulla riconferma della validità dell’articolo 11 della Costituzione insufficiente. Ma vi sono altre questioni decisive e di grande attualità. Dopo i referendum di Francia e Olanda gli indirizzi dell’Unione vanno rimessi in discussione o no? Faccio un solo esempio: che ne sarà della direttiva Bolkenstein che promuove il “dumping sociale” all’interno della stessa Europa? Non solo, ma per venire al nostro paese: dove si recupereranno le risorse mancanti? Va bene la lotta all’evasione fiscale, va bene la lotta alla rendita, ma occorrerebbe dire qualcosa circa il carattere più o meno progressivo dei prelievi e, ancora, sarebbe necessario capire se per fare cassa si intende intervenire anche sul welfare o utilizzare lo strumento delle privatizzazioni. Non si tratta di bazzecole. Né si è ancora capito come si punta a risolvere il problema della caduta del potere di acquisto dei salari. Si pensa forse che una detassazione dei contributi per i nuovi assunti possa consentire anche un incremento salariale, in un quadro di concertazione fra le parti sociali? Ma se fosse questa l’ispirazione di fondo del centro sinistra, e ammesso che questo effetto positivo sui salari vi producesse, ci si chiede: chi sarebbe penalizzato dal minor introito fiscale destinato alle casse dello stato? E ancora, vi è un apparente consenso sulla necessità di superare la flessibilità selvaggia del mercato del lavoro, ma dove si intende intervenire? Si vuole abolire la legge 30? E se invece la si vuole emendare, cosa si intende eliminare giacché, come è noto, molte delle forme di lavoro flessibile introdotte con la legge 30 nella realtà non sono state applicate, a differenza di altre che risalgono al precedente governo Prodi? Di tutto questo si dovrebbe parlare, coinvolgendo le forze sociali ma anche gli stessi iscritti ai vari partiti, che spesso sono espropriati da decisioni assunte sulle loro teste e che rischiano di vedersi sfornato all’ultimo minuto un programma che non solo non hanno in alcun modo contribuito a costruire ma che potrebbe contrastare con le loro stesse aspirazioni.
Gianluigi Pegolo