Intervento in Aula sugli infortuni sul lavoro

Signor Presidente,

a nome del gruppo Rifondazione Comunista – Sinistra Europea ringrazio il governo per la puntuale informazione fornita all’aula in merito ai tragici eventi costati la vita a otto lavoratori negli ultimi giorni: eventi che si aggiungono alla lunghissima teoria di morti sul lavoro che

questo Paese da troppo tempo è costretto a piangere, quasi si trattasse di fatalità dinanzi alle quali altro non è dato se non inchinarsi impotenti.

Non è così e non per caso ho evitato di parlare di «incidenti». Al di sotto di una certa soglia gli incidenti sono incidenti, ma oltre quella soglia no. Se la si supera, vuol dire che c’è qualcosa che non funziona: a monte, nelle misure di sicurezza; a valle, nei controlli. E questa soglia il nostro Paese la oltrepassa stabilmente da diversi anni. Ciò gli consegna il poco invidiabile primato europeo nella classifica delle morti bianche (ancora nel 2005 in Italia se ne sono registrate 1200, in Germania 901, in Francia 782 – e sono numeri che riflettono solo l’economia regolare, non anche quel sommerso che produce oltre un quarto del Pil italiano).

Questo è il punto, signor Presidente, che pone ciascuno di noi dinanzi a precise responsabilità.

È certo anche un problema di misure specifiche (vi accennerò tra breve). Ma non si comprenderebbe quanto sta accadendo – questa ondata di infortuni e di morti – se prescindessimo da qualsiasi considerazione generale sulla condizione del lavoro oggi in Italia e in tutta Europa.

Quando si discute dei cosiddetti “costi del lavoro”, dei contratti e della produttività (temi di cui si dibatterà con fervore nelle prossime settimane) bisogna tenere ben presente che c’è un filo rosso (rosso, talvolta, anche di sangue) che lega il tema degli infortuni sul lavoro all’esasperata tensione alla riduzione dei costi dettata da una concezione dell’attività imprenditoriale che subordina ogni bene e ogni valore alla ricerca immediata del massimo profitto: una concezione che peraltro non conduce alla crescita del Paese, ma è invece in larga misura responsabile delle gravi difficoltà del suo apparato produttivo.

Sono state qui ricordate alcune cifre, che non ripeterò. Ma le cifre possono essere diversamente interpretate, diversamente commentate.

Tutti sappiamo che la patologia di cui stiamo discutendo è figlia di due principali fonti di rischio:

– la precarietà, che si alimenta dei processi di esternalizzazione e dell’allungarsi delle filiere dei subappalti, in particolare nel settore dei servizi alle imprese;

– il lavoro nero, che nel nostro Paese più che una piaga – come si suole ripetere – è un’epidemia. Dall’attività di vigilanza svolta dall’Inps nei primi sei mesi del 2006, l’82% delle imprese sono risultate non in regola. Le ispezioni svolte tra agosto e ottobre nei cantieri hanno rilevato irregolarità nel 56% delle imprese edili e nel 28% dei rapporti di lavoro. In agricoltura lavora al nero quasi il 70% degli addetti – per la gran parte migranti, non per caso i più pesantemente colpiti dalla violazione delle norme sulla sicurezza.

Per questo è molto importante che la Finanziaria abbia stanziato fondi destinati all’assunzione di 795 nuovi ispettori del lavoro. Non meno urgente sarebbe abrogare il dlgs 124 del 23 aprile 2004, che ha improvvidamente ridotto l’autonomia degli enti previdenziali in materia di servizi ispettivi, snaturando il ruolo degli ispettori del lavoro.

Nelle scorse settimane sono state assunte alcune misure positive, nelle quali ravvisiamo la volontà di affrontare il problema della sicurezza sul lavoro. Mi riferisco in particolare al “pacchetto sicurezza” contenuto nel decreto legge Bersani-Visco. Ma ancora altri segnali andrebbero dati in questa direzione: correggendo la riduzione generalizzata dei premi Inail prevista dal comma 410 del’art. 16 della Finanziaria; e modificando l’articolo 117 della Costituzione, restituendo allo Stato la competenza diretta ed esclusiva in materia di «tutela e sicurezza del lavoro».

Concludo, signor Presidente, con una semplice riflessione.

Quando i nostri costituenti vollero indicare nel lavoro il fondamento della nostra Repubblica non si limitarono a richiamare un dato di fatto, spesso misconosciuto. Intesero, anche, fissare uno stringente principio normativo. Ma allora, se non vogliamo che i nostri richiami alla Costituzione si esauriscano in esercizi retorici e in stucchevoli liturgie, dobbiamo riconoscere che oggi il lavoro è per troppi nostri concittadini solo motivo di frustrazione, di ansia e anche – come questa strage silenziosa dimostra – di grandi sofferenze.

Ciascuno faccia dunque la propria parte perché questo stato di cose cessi al più presto e al lavoro siano restituiti tutti i diritti e tutte le tutele che gli competono.