Intervento di Gianluigi PEGOLO alla Direzione e all’Esecutivo naz.le del PRC

REFERENDUM ED ELEZIONI AMMINISTRATIVE.
Alcune lezioni da trarre

Il dibattito sulla prova referendaria sta assumendo dei connotati paradossali. L’interrogativo sul quale si concentra lo scontro fra sostenitori e oppositori della riforma costituzionale voluta dal centro destra verte sulla questione relativa a quale dovrebbe essere l’esito migliore del referendum al fine di dare seguito alla riforma istituzionale. Ciò è rivelatore di un tentativo simmetrico di depoliticizzare lo scontro referendario condotto sia dal centro destra, sia dal centro sinistra, motivato da ragioni tattiche. Va da sé che, con questi presupposti, l’efficacia dell’iniziativa del centro sinistra in questa battaglia vitale – non solo per la democrazia ma anche per il consolidamento dello schieramento progressista – tenda a ridimensionarsi pericolosamente.
In verità, questa campagna referendaria appare connotata da scarsa tensione, l’informazione sul quesito è del tutto inadeguata e il rischio che alla fine prevalgano le posizioni di chi meglio riesca ad evocare pulsioni irrazionali resta concreto. Peraltro, com’è noto, i sondaggi danno allo stato attuale un lieve scarto di vantaggio a favore del NO, ma si tratta per l’appunto di un vantaggio irrisorio che potrebbe essere messo facilmente in discussione se nel corso di queste settimane risultasse vincente il messaggio lanciato dai sostenitori del SI.

A tale proposito è ormai abbastanza chiara l’argomentazione utilizzata dal centro destra. Essa fa leva sul presunto carattere innovativo della riforma costituzionale introdotta. In tal senso, si cavalcano alcuni consolidati luoghi comuni: l’esigenza di ridare potere alle comunità locali, la necessità di ridurre gli sprechi e di introdurre elementi di moralizzazione a livello istituzionale (si veda l’enfasi posta sulla riduzione del numero dei parlamentari), la necessità di conseguire la stabilità di governo, incardinando il sistema politico sulla figura del premier.
Si tratta di un messaggio dai caratteri dichiaratamente populisti che trae forza da un approccio antipolitico, tipico della cultura della destra. E tuttavia, nonostante la sua grossolanità, esso non va sottovalutato per almeno due ragioni. In primo luogo, perché esiste nel paese una vulnerabilità sul piano della cultura politica che espone il cittadino alla suggestione di messaggi demagogici e, in secondo luogo, perché le argomentazioni delle destre ricalcano tesi che in questi anno hanno – purtroppo – trovato eco anche a sinistra.

A tale proposito la risposta sostanzialmente difensiva data dal centro sinistra, ed in particolare da alcuni suoi esponenti – “Il NO non significa conservazione” – trova certamente una ragione anche nella difficoltà a ribaltare l’intero approccio istituzionale fino ad ora perseguito. Ed invece quello di cui vi sarebbe bisogno è un’offensiva esplicita: contro il carattere antidemocratico del provvedimento – una vera e propria costituzionalizzazione del berlusconismo – rappresentato dall’enorme accentramento di poteri nella figura del leader, contro lo stravolgimento dei principi di eguaglianza e solidarietà determinato dall’attribuzione di poteri esorbitanti alle regioni (la “devolution”), contro la mistificazione di una presunta moralizzazione che si riduce ad una lieve riduzione del numero dei parlamentari mentre, nel frattempo, le rappresentanze parlamentari sono sottoposte ad un controllo ancora più ferreo da parte dei gruppi dirigenti dei partiti e dei leaders delle coalizioni.

Ormai, nell’imminenza della scadenza, è ovviamente possibile incidere in modo limitato sull’orientamento della campagna referendaria, mentre ciò che diventa urgentissimo è estendere il più possibile l’iniziativa entrando in contatto con il maggior numero di cittadini. Rifondazione Comunista, a tale riguardo, deve recuperare i propri ritardi e contribuire a supplire alle inefficienze dello schieramento progressista. Per questo occorre tradurre questi orientamenti in materiali semplici, producibili a livello locale, con contenuti di forte impatto. Per questo sarebbe particolarmente utile individuare una giornata di mobilitazione nazionale nella quale chiedere alle nostre strutture di effettuare una larga diffusione di tale materiale, meglio se insieme con altre forze.

Resta in ogni caso sul tappeto un tema di prima grandezza che si connette alla campagna referendaria ma per molti versi la oltrepassa. Mi riferisco alla richiesta ricorrente di avviare immediatamente dopo il referendum, una nuova stagione di confronto istituzionale fra i due poli per giungere ad una modifica condivisa della Costituzione. Questa proposta (avanzata da esponenti politici sia del centro sinistra, sia del centro destra) è stata ulteriormente precisata – con l’intervento di noti costituzionalisti – con l’indicazione dell’adozione anche di appositi strumenti. In particolare: la nomina per via elettorale di un’”assemblea costituente” o, per nomina parlamentare di una “convenzione” aperta anche ad esponenti della società civile e delle istituzioni locali. Esiste una differenza non marginale fra i due strumenti essendo l’uno (l’assemblea costituente) di per sé altamente rappresentativa avendo avuto una ratifica dal corpo elettorale, mentre l’altro (la Convenzione) disponendo di una minore rappresentatività essendo un organismo espresso indirettamente attraverso un’intesa parlamentare. Ciò che però finisce inevitabilmente per accomunare le due forme è il carattere di eccezionalità che esse assumono e che ne legittima un intervento di revisione costituzionale a tutto campo, ben oltre i limiti posti dall’art. 138 della Costituzione.

Certo non mancano nel dibattito anche propensioni diverse che escludono il ricorso alla costituzione di organismi ad hoc ma, ciononostante, quello che si va imponendo è un orientamento teso, all’indomani del voto, a promuovere una larga intesa in tema di riforma costituzionale. C’è da chiedersi come mai si assista a questo nuovo spirito costituente. Il punto, a mio avviso, è che ci troviamo alla presenza, da un lato, di proposte condizionate dalla lotta in corso fra due schieramenti che tentato ciascuno, anche sul piano istituzionale, di spostare gli equilibri di forza a loro vantaggio e, dall’altro, ad un’oggettiva convergenza di interessi che accomunano gli stessi sul piano istituzionale. La partita, infatti, non si è conclusa con l’esito delle politiche ed è per molti versi legata alla capacità, in entrambi i poli, di tenere compatto il proprio schieramento. Nasce da qui, a mio avviso, una propensione comune a completare la riforma costituzionale in senso dichiaratamente bipolare e preferibilmente maggioritario. Che peraltro di questo si tratti – anche se va riconosciuto che su alcune materie modifiche migliorative s’impongano oggettivamente – lo dimostra il richiamo di Barbera all’esigenza di comprendere, fra gli argomenti da sottoporre al confronto, anche la legge elettorale. E c’è anzi il fondato sospetto che la verifica in materia di Costituzione preluda in particolare ad un accordo su questo tema delicatissimo.

Non vi dovrebbero essere dubbi a tale riguardo sui rischi evidenti che un tale approccio presenta. Un’eventuale intesa fra i due poli su questi temi può chiudere definitivamente l’esperienza istituzionale italiana, vincolando ogni forza politica all’interno di due blocchi compatti, riducendo ogni spazio per posizioni dissonanti e, in ultima analisi, favorendo lo sviluppo di un assetto bipartitico. Che questo possa essere il disegno accarezzato da molti in questa fase non dovrebbe sorprendere, dato che a sinistra è in gestazione il Partito Democratico – che ha evidenti tentazioni egemoniche sull’insieme dell’attuale coalizione del centro sinistra – e a destra, per evitare la deflagrazione della coalizione, vi è una spinta a creare un nuovo soggetto politico unitario.
Per questo sarebbe un grave errore che il nostro partito assumesse un approccio pericolosamente tattico o che peccasse di reticenza. Ciò vale nei confronti del rilancio di una versione più blanda di premierato che potrebbe essere riproposta dalla sinistra moderata, come nel caso della riproposizione di una soluzione dichiaratamente maggioritaria per quanto riguarda la legge elettorale.

Un ragionamento a parte va fatto sul risultato elettorale delle elezioni amministrative, anche se – va detto – esiste un intreccio fra alcuni aspetti sottesi al dibattito referendario e quel risultato, sui quali tornerò successivamente. L’analisi dei dati conferma il successo del centro sinistra, a parte la riconferma come forza di governo del centro destra in Sicilia, a Milano e in alcune realtà locali. Tale successo si manifesta con la conquista di alcune istituzioni locali. Ciò è in sé incoraggiante, anche perché ben sappiamo come Berlusconi puntasse a utilizzare il voto delle amministrative come occasione per dare una spallata al governo. La spallata non c’è stata ed anzi vi è stato un ulteriore consolidamento del centro sinistra. Questo non significa però l’affermarsi di una tendenza irreversibile al logoramento del centro destra, come alcuni – in modo superficiale – potrebbero pensare. In realtà, non solo la dimensione del successo dell’Unione non è stata eccezionale, ma essa si è prodotta in virtù di una crescita sorprendente dell’astensionismo. Senza contare che il centro destra ha sempre dimostrato una considerevole debolezza nel voto amministrativo a differenza del centro sinistra.

Il risultato, però ci offre anche altre utili indicazioni.
In primo luogo, si conferma il successo della lista dell’Ulivo. Questo successo è spesso veicolato dall’azione di alcuni sindaci del centro sinistra (Veltroni, Chiamparino, ecc.). In questo senso i primi cittadini diventano i protagonisti di una operazione che, oltrepassando i limiti di un rapporto fra Ds e Margherita, tende a coinvolgere anche espressioni più ampie dell’arcipelago progressista. Questo risultato, per le dimensioni che assume, ma anche per le caratteristiche qualitative che presenta, costituisce una sollecitazione potente alla costruzione rapida del Partito Democratico. Un soggetto che non solo ha dimostrato di poter contare su un consenso elettorale reale, ma che si dimostra ancora più dinamico a livello locale e perciò suscettibile di ulteriori sviluppi.

In secondo luogo, il risultato elettorale induce alcuni elementi di preoccupazione per la tenuta di Rifondazione Comunista. I risultati delle provinciali, dei comuni capoluogo e degli altri comuni superiori ai 15000 abitanti sono sostanzialmente omogenei: Rifondazione ottiene un risultato analogo a quello che ottenne nelle precedenti elezioni amministrative del 2001. Considerata la distanza temporale che separa l’ultimo appuntamento elettorale da quello precedente ed anche i contesti politici e sociali assai diversi in cui questi si verificarono, il risultato ottenuto dimostra l’oggettivo indebolimento, sul piano locale, del partito più ancora che la sua sostanziale tenuta. A maggior ragione se si considera che contemporaneamente, oltre ai successi dell’Ulivo, si hanno risultati importanti dei Comunisti Italiani.

In terzo luogo, va costatato come la natura del sistema elettorale continui a rappresentare una insidia pericolosissima. Il risultato siciliano a tale riguardo è allarmante e insieme significativo. Lo sbarramento al 5% posto nella legge elettorale regionale ha agito da impedimento all’affermazione della sinistra di alternativa che, presentatasi insieme sotto un unico simbolo, ha ottenuto un risultato inferiore alla somma dei rispettivi elettorati di riferimento. Non solo, in questo contesto la forza maggiore dello schieramento – Rifondazione Comunista – non è riuscita, nel gioco delle preferenze, ad ottenere alcuna rappresentanza istituzionale. Il che riconferma, se ce ne fosse bisogno, l’assoluta negatività di modifiche in senso maggioritario delle leggi elettorali. Considerazione che dovrebbe essere tenuta in debita considerazione nel momento in cui, ad esempio, è in atto nella regione Friuli Venezia Giulia, ad opera del presidente Illy, il tentativo di elevare ulteriormente la soglia di sbarramento per liquidare gran parte delle forze della sinistra di alternativa.

Se vi è una morale politica in questo voto è che pensare di potere contendere alla sinistra moderata l’egemonia in un quadro bipolare rischia di essere velleitario. In particolare, non solo l’esistenza di un rigido sistema bipolare impedisce alla sinistra di alternativa quella autonomia indispensabile alla sua affermazione, ma vi è di più. Se si pensasse, all’interno di questo schema di agire giovandosi essenzialmente della propria rendita di posizione e delle prerogative garantite da un ruolo di governo (in primo luogo in termini di visibilità) si commetterebbe un grave errore. In assenza, infatti, di un’efficace azione autonoma tesa – pur nell’ambito di una ricerca unitaria – a modificare gli equilibri esistenti attraverso la valorizzazione di alcuni contenuti ad alto impatto sociale, ci si porrebbe in una condizione di oggettiva debolezza esponendosi ad un doppio rischio. Da un lato, quello di subire l’incalzante concorrenza delle componenti moderate del centro sinistra, molto più conformi ad una logica bipolare e quindi oggettivamente avvantaggiate. Dall’altro, quello di essere scavalcati a sinistra da altre formazioni politiche che, anche in virtù della minore consistenza e quindi della minore esposizione, possono assumere posizioni più autonome.
Il che, come si vede, ci riporta per altra via ad un disegno di ordine politico, sociale ed istituzionale, in via di affermazione – che in qualche modo ho richiamato nella parte conclusiva delle riflessioni condotte sulla vicenda referendaria e che può essere sintetizzata col termine “bipolarismo maggioritario”- che va contrastato senza incertezze.