(Mantova, 25 26 27 gennaio 2006)
Il tempo a disposizione impone una drastica selezione dei temi ed una impostazione prevalentemente assertiva.
Quanto è presupposto lo lascio alla perspicace intuizione dei compagni e delle compagne.
Siamo di fronte ad un impoverimento pesante dei lavoratori e dei pensionati: non vi è occasione né sede in cui non denunciamo questa verità che è ormai divenuta consapevolezza generale, come sempre più chiaro diviene che questa situazione non soltanto è insostenibile per chi ne subisce direttamente i colpi più duri, ma è letale per l’intero paese.
Centrale è dunque una politica redistributiva della ricchezza nazionale. Questa svolta si regge su due snodi, due punti di forza di cui cercherò di dimostrare l’interdipendenza: le politiche fiscali e il welfare da una parte e le politiche contrattuali dall’altra. Vediamole partitamente.
La prima. Radicale cambiamento delle politiche fiscali significa, certo, revoca dei condoni di ogni sorta, lotta all’evasione, ripristino della progressività dell’imposta sul reddito, restituzione di quanto il drenaggio fiscale estorce al lavoro dipendente, ma significa anche tassazione di tutta ricchezza finanziaria e patrimoniale esentasse che costituisce un enorme giacimento di risorse indebitamente sottratto alla collettività e che alimenta imprese speculative i cui risultati perversi sono sotto i nostri occhi.
Si tratta, ovviamente, di una questione elementare di giustizia, che sta alla base di quel patto di cittadinanza che oggi è gravemente compromesso.
Ma vi è un’altra ragione che lo rende indifferibile.
Senza queste risorse è la nostra stessa strategia, quella che abbiamo delineato nelle tesi, è quel progetto di rinascita del paese che morderebbe il freno, perché verrebbero fatalmente a mancare i mezzi per ricostruire il sistema sanitario nazionale, la previdenza sociale, l’assistenza, per dare una speranza di vita degna ai non autosufficienti, per rifinanziare e potenziare il sistema degli ammortizzatori sociali, per rilanciare la scuola pubblica, la ricerca, per rendere possibile un intervento pubblico nell’economia che rifondi una politica industriale.
Se non vinceremo questa sfida non troveremo orecchie ricettive in nessun governo e torneremo a sentire parlare di intangibilità delle rendite, di sacrifici per risanare il bilancio dello stato dissestato, di politica dei “due tempi”.
La seconda. E’ necessario abbandonare l’idea bizzarra quanto radicata secondo la quale se si ottiene più protezione sociale si può chiedere meno salario. Intanto perché dovremmo ormai avere imparato che basse retribuzioni non favoriscono più investimenti produttivi e sociali, né maggiore e migliore occupazione. E’ vero semmai l’esatto contrario e cioè che se si indeboliscono le ragioni del lavoro dentro i rapporti di produzione si indebolisce il peso politico del lavoro anche nella società e nella politica.
La tesi della possibile coesistenza di un’economia di mercato, di una produzione da cui sia stato espunto il conflitto sociale con una società ed uno stato miracolosamente ispirati da politiche solidali è una di quelle sciocchezze che ricordano, duemilacinquecento anni dopo, l’apologo truffaldino di Menenio Agrippa alla plebe romana.
Ma poi c’è un problema, fondamentale, di rivalutazione del valore del lavoro, della prestazione lavorativa, in quantità e in qualità; una prestazione che non può valere quei miserabili mille euro mensili che condannano all’indigenza la gran parte del lavoro dipendente.
Voglio dire che deve essere affrontato il tema, diretto, dei rapporti di potere fra capitale e lavoro. E’ qui che scontiamo i nostri più gravi arretramenti ed è qui che originano le nostre odierne difficoltà.
Proporsi di rafforzare il contratto nazionale di lavoro significa allora, in primo luogo, aumentare a quel livello il potere d’acquisto dei salari e delle retribuzioni.
Non è vero che se riduci il contratto nazionale crei gli spazi per rafforzare la contrattazione di secondo livello. E’ vero invece che li indebolisci entrambi ed è l’intero sistema della contrattazione collettiva che viene messo a repentaglio: il contratto nazionale perde il suo carattere solidaristico e universalistico e la contrattazione articolata scivola inesorabilmente verso derive aziendalistiche.
E’ in queste sabbie mobili che può attecchire un modello che legittima le deroghe aziendali e la più impari e fasulla delle contrattazioni, quella individuale.
Le regole sono dunque importanti, purchè non si perdano di vista i cardini su cui devono poggiare, purchè non diventino una cintura di contenzione che imbriglia l’autonoma determinazione sindacale delle politiche contrattuali (quella stagione, se mai ha avuto un senso, oggi deve tramontare) e, infine, purchè non diventi un feticcio.
E’ appena il caso di ricordare che le regole (quelle vecchie) non hanno impedito che si finisse per discutere di normativa nel biennio o che i contratti slittassero fino a due anni oltre la naturale scadenza.
Questa considerazione ci rinvia alla questione del modello contrattuale sul quale sta maturando l’ennesima sfida dentro il sindacato.
Converrà allora ribadire a Pezzotta (e a chi gli succederà alla guida della Cisl) il quale annuncia la disponibilità a sedersi anche da solo al tavolo del negoziato che prima bisogna rinnovare tutti i contratti costruiti sulla base delle norme vigenti, poi bisogna definire regole condivise di democrazia sindacale, quindi lavorare ad una proposta di piattaforma unitaria da sottoporre alla discussione e alla formale approvazione da parte di tutti i lavoratori e solo allora procedere nella trattativa: non prima che tutto ciò avvenga e non al buio.
L’autonomia o si regge su questi presupposti o è una parola vuota.
L’abbiamo detto: o si ha la forza dell’eleborazione progettuale, delle idee, oppure si va fatalmente a rimorchio di quelle altrui.
Per noi il progetto -quello più ambizioso, nientemeno di ripensare il paese- non nasce dall’autoreferenzialità, dall’idea aristocratica di un governo degli ottimati, ma dalla rappresentanza. Ma non c’è rappresentanza reale se questa è presupposta.
E’ la democrazia che fonda la rappresentanza, che le dà autorevolezza e peso politico. Parlo della democrazia come partecipazione consapevole e come sovranità piena dei lavoratori nelle decisioni.
Se non c’è questo la soggettività del lavoro è una velleità o una bugia.
Non mi nascondo che il movimento operaio, la sinistra sociale e politica hanno sempre avuto un rapporto complicato e mai risolto col tema della democrazia e persino con il riconoscimento del pluralismo interno, come dimostrano anche i problemi di questo nostro congresso.
Parlo del voto dei lavoratori, non soltanto come criterio dirimente, ma come diritto individuale e collettivo, come fonte della sovranità, come risorsa essenziale cui attingere per validare e riprodurre l’utonomia del sindacato e la sua stessa unità.
E allora, vorrei essere molto esplicito su un nodo non sciolto di questo nostro congresso.
Se tutto si risolvesse alla fine nel sapere se chi è per il referendum prende un punto percentuale in più o in meno, il mio interesse sarebbe prossimo allo zero.
Decisivo è sapere invece se questo confronto produrrà oppure no dei cambiamenti nella pratica democratica della Cgil, di tutta la Cgil.
Avremo sprecato tempo se tutto rimarrà come prima, se chi fa del voto dei lavoratori un principio irrinunciabile continuerà su questa strada, mentre altri procederanno nella diffusissima pratica in base alla quale il voto dei lavoratori è nella migliore delle ipotesi un’elargizione paternalistica dei gruppi dirigenti che può essere revocata a propria discrezione e secondo convenienza e opportunità.
Abbiamo già detto (e solennemente scritto, nel XIV congresso) che un accordo, per avere efficacia generale (erga omnes) deve essere approvato da tutti i lavoratori e che allora servono regole certe. Aggiungo: serve anche una pratica sindacale coerente che comporta molta fatica e prezzi non lievi, ma che paga.
Non vi dice nulla che i segretari di Fim e Uilm, che Caprioli e Ragazzi, firmatari solo una stagione fa di accordi separati, a conclusione della trattativa per il rinnovo del contratto metalmeccanico abbiano sottoscritto una dichiarazione che rende valida la firma del contratto solo dopo l’approvazione da parte dei lavoratori tramite referendum? E non è questo un risultato da capitalizzare per tutta la Cgil?
Poi serve la legge. Una legge che stringa in un intreccio originale democrazia diretta e democrazia delegata, il ruolo del sindacato libera associazione e il diritto dei lavoratori cui spetta l’ultima parola; una legge che aggiunga all’impianto già previsto per il pubblico impiego la consultazione dei lavoratori, sul modello del referendum istituzionale.
La richiesta di una legge non può tuttavia essere subordinata ad un accordo intersindacale.
Beninteso, un accordo i fra sindacati va cercato con determinazione e l’esperienza ci dice che questo è possibile se alla tensione unitaria si unisce, una volta per tutte, la pratica convinta dell’obiettivo.
Ma la politica deve pur avere una propria idea della democrazia del lavoro, come l’ebbe nella formulazione dei dodici articoli che compongono il titolo terzo della Costituzione e come l’ebbe vent’anni più tardi con l’approvazione dello Statuto dei diritti dei lavoratori.
Non mettiamoci nelle condizioni di subire ricatti o veti o di levare le castagne dal fuoco a chi ha il dovere di legiferare.
L’ultima questione che vi propongo riguarda il tema del rinnovamento della Cgil che non può rimanere affidato alle pure enunciazioni di principio contenute nella tesi n°10.
Rinviare le decisioni che servono qui ed ora da un congresso all’altro o ad una conferenza d’organizzazione che poi non si svolge o che se si svolge non decide significa affermare cose che possiamo sin d’ora esser certi resteranno sulla carta.
Abbiamo detto che nuova confederalità significa dare capillarità alla contrattazione sociale, ricostruire nella elaborazione rivendicativa il nesso fra contrattazione nei luoghi di lavoro e risposta a più vasti bisogni sociali, fra diritti nel lavoro e diritti di cittadinanza.
Per farlo dobbiamo cambiare molto, dobbiamo superare separatezze e chiusure corporative.
E dobbiamo pensare al decentramento della nostra struttura ancora prevalentemente “urbanocentrica” come ad un vero decentramento politico.
Dobbiamo puntare ad un reinsediamento della Cgil nel territorio come rete molecolare di camere del lavoro comunali capaci di divenire un elemento di riorganizzazione della democrazia.
Solo così la soggettività del lavoro può acquistare forma politica e contribuire alla rivitalizzazione della partecipazione, all’incontro non estemporaneo con i movimenti, divenire punto di riferimento di ciò che di vitale fermenta nella società.
Si tratta allora di compiere scelte chiare, di ripensare la distribuzione delle risorse disponibili, riducendo il peso delle strutture sovraordinate al territorio, snellendole di tutto ciò che è pura sovrapposizione pletorica di funzioni e superandone il ruolo prevalentemente gerarchico.
E si tratta di contrastare l’acuto processo di senescenza della Cgil al cui gruppo dirigente mancano ormai due, forse tre generazioni.
Serve più coraggio nel rinnovamento generazionale, etnico e di genere: giovani, immigrati, donne.
Se a promuovere un ricambio naturale non interviene, come fu negli anni ’60 e ’70, una spinta dal basso, occorre la lungimirante saggezza di promuoverlo dall’alto. Un’organizzazione reclinata su se stessa, che continua ad invecchiare, riproduce inesorabilmente vecchi schemi e sindromi burocratiche che prima o poi sfociano in crisi irreversibili.
Siamo in tempo ad evitarlo, ne abbiamo le risorse se attingiamo all’enorme giacimento di milioni di iscritti e se investiamo su di loro.