Intervento di Alberto Burgio sulla missione in Libano

Mi trovo in larga misura concorde con l’analisi svolta dal compagno Fabio Amato nella sua relazione introduttiva. In particolare per la sobrietà dell’analisi che, astenendosi da impropri trionfalismi, pone nella debita evidenza le ragioni di preoccupazione che concernono lo scenario mediorientale di cui oggi la direzione è chiamata ad occuparsi. Prima di entrare nel merito del ragionamento voglio anche sottolineare l’aspetto positivo di una discussione tra noi che si svolge, come sempre dovrebbe essere, con toni pacati, attenta al merito delle questioni, in forme insomma tali da favorire il reciproco ascolto e la elaborazione partecipata di una linea quanto più possibile condivisa.
Limitandomi per ragioni di tempo agli aspetti cruciali della nostra riflessione, vorrei soffermarmi in primo luogo su quella che è stata chiamata da molti tra coloro che mi hanno preceduto l’ambivalenza e l’ambiguità della situazione venutasi a creare in seguito all’aggressione israeliana in Libano e alla iniziativa delle Nazioni Unite.
Proprio questa ambivalenza è segno di una complessità che impone cautela nelle nostre riflessioni e che sconsiglia tanto – come dicevo – valutazioni trionfalistiche quanto pure certezze di segno opposto, letture per dir così “catastrofiste” che muovono dall’assunto non documentato della identità della missione in Libano con le missioni militari in Iraq e Afghanistan.
Il passaggio da una fase segnata dall’unilateralismo americano ad una gestione multilaterale delle relazioni internazionali non è certo di per sé la soluzione di ogni problema (anche se occorre considerare che il multilateralismo odierno è sensibilmente diverso da quello degli anni ’90, incentrato sull’incontrastata influenza della superpotenza statunitense), ma è tuttavia un elemento di rilevante novità. Certo, la relazione tra gli Stati che concorrono oggi alle decisioni internazionali è improntata a reciproca competizione: ma proprio tale competizione può costituire un ostacolo a progetti di dominazione sino ad un recente passato non contrastati. Ed è anche inconfutabile che la logica che regola i rapporti internazionali sia dettata dall’uso della forza e dai rapporti di forza. Ma proprio per questo il protagonismo di altre potenze costituisce un elemento di ridimensionamento dell’autocratica volontà di dominio degli Stati Uniti e dei loro alleati.
In questo quadro va valutata l’internazionalizzazione della crisi mediorientale. Certo, si tratta di per sé solo di un mutamento di statuto della crisi medesima e non ancora di una sua soluzione, ma è un mutamento che reca con sé potenzialità positive, che può condurre anche a sviluppi progressivi. Se è vero che essere arbitro (grazie all’alleanza con gli Stati Uniti) del conflitto con i palestinesi e gli Stati confinanti è sin qui servito ad Israele per perseverare una strategia di guerra e di espansione coloniale e imperialistica, superare questo elemento, limitando e forse anche eliminando tale condizione di incontrastato arbitrio, costituisce di per sé un valore. Non solo può ostacolare i disegni aggressivi di Israele, ma può rimettere al centro il tema delle risoluzioni Onu violate da Israele oltre a rilegittimare, non solo in linea di principio, ma anche sul terreno dell’efficacia, l’intervento di altri soggetti persino esterni al Consiglio di Sicurezza.
Tutto ciò non toglie nulla all’ambiguità del quadro e ai rischi che molti compagni hanno opportunamente sottolineato. Rischi che, come sappiamo, concernono le diverse interpretazioni del ruolo di Hezbollah, attengono alla collocazione delle truppe di interposizione nel solo territorio libanese, riguardano la questione del confine siriano e che soprattutto derivano dalla assoluta aleatorietà della relazione (pur evocata a parole da tanti, a cominciare da Annan e dal nostro ministro degli Esteri) tra il conflitto israelo-libanese e la questione palestinese, tra la necessità della interposizione lungo il confine libanese e quella, sino a prova contraria solo evocata, della interposizione lungo il confine di Gaza e della Cisgiordania.
In conclusione, su questo punto, direi che dobbiamo essere tutti consapevoli che la missione su cui oggi discutiamo costituisce solo l’inizio di un processo di risoluzione positiva dei conflitti in Medio Oriente: un processo irto di difficoltà e denso di pericoli ma che in ogni modo oggi registra un primo passo positivo. È evidente che in assenza di una crisi radicale, oggi tutt’altro che data, del clima politico in Israele, favorevole alle politiche aggressive delle leadership succedute a Rabin (un clima che coinvolge una opinione pubblica sempre più orientata verso politiche di guerra), e in assenza di una inversione di tendenza della politica estera statunitense, di cui non si vede nemmeno una prima avvisaglia, non vi è presenza Onu che possa di per sé portarci al consolidamento di un vero processo di pace. Ma è anche vero che la sconfitta di Israele nel conflitto contro il Libano e l’intervento delle Nazioni Unite segnano oggi un primo significativo insuccesso della aggressività e dei disegni espansionistici israeliani.
Chiudo su questo punto, dunque, all’insegna di una indispensabile cautela interpretativa, che a mio modo di vedere deve riguardare anche il nostro giudizio sull’Onu, anch’essa evidentemente coinvolta in un processo che può riscattarne l’azione dalla grave subalternità ai diktat statunitensi che ne ha purtroppo marcato l’azione negli ultimi anni e che può quindi riaprire la possibilità di trasformazioni positive del suo ruolo.
Il secondo elemento su cui vorrei soffermarmi concerne il nesso tra la missione in Libano e le altre missioni militari a cui il nostro paese prende parte e, in particolare, la missione in Afghanistan. Internazionalizzazione della crisi mediorientale significa al contempo due cose: non solo che altri protagonisti irrompono sul teatro mediorientale ma anche che la crisi in Medio Oriente viene riconosciuta come un tassello di un mosaico ben più ampio, dell’intero contesto di crisi sul quale si dispiega la devastante iniziativa bellica voluta dalla Casa Bianca. In questo senso mi trovo d’accordo con quanti nelle scorse settimane (e penso in particolare ad alcuni autorevoli dirigenti del nostro partito) hanno insistito sulle connessioni oggettive che legano la crisi israelo-libanese e mediorientale con le guerre in Iraq e in Afghanistan e che, su questa base, hanno chiesto con forza che la differenza essenziale tra l’interposizione in Libano e l’iniziativa militare in Iraq e in Afghanistan emerga con tutta evidenza e ispiri comportamenti conseguenti e quindi radicalmente diversi.
Voglio dire, per essere del tutto chiaro, che se vogliamo rafforzare le considerazioni sin qui svolte dobbiamo sempre far valere il nesso tra quello che andiamo a fare in Libano e quello che ancora stiamo facendo – e che dobbiamo cessare di fare – in Afghanistan. Dobbiamo chiedere che un nuovo segno di pace ispiri la nuova politica estera italiana nel suo complesso. Dobbiamo pretendere che siano incontrovertibili ed evidenti a tutti le finalità radicalmente non offensive delle missioni internazionali a cui questo governo ritiene di dovere aderire e a cui la maggioranza di centrosinistra dà il proprio assenso. In questo quadro l’esigenza del ritiro delle nostre truppe dall’Afghanistan è, insomma, ancora più urgente di quanto non fosse prima dell’attacco israeliano contro il Libano. Senza contare che ritirarsi dall’Afghanistan renderebbe assai più credibile la nostra presenza in Medio Oriente nelle sue finalità di pace e gioverebbe alla sicurezza delle nostre truppe.
Non mi soffermo qui sulla descrizione di una situazione in Afghanistan che è nota a tutti i compagni. La mattanza diviene ogni giorno più atroce: è un miracolo che i nostri militari non siano morti nel recente episodio di Farah; la produzione dell’oppio è sempre più la base del potere incontrastato dei signori della guerra. Insomma, un disastro che lo stesso ministro D’Alema ha riconosciuto come testimonianza del “fallimento” della missione Isaf. Ma su una cosa dobbiamo in particolare riflettere e cioè che, nonostante questo stato di cose riconosciuto anche dal governo, le promesse solennemente fatte al Parlamento in occasione del voto sul rifinanziamento della missione lo scorso luglio sono rimaste lettera morta: non vi è traccia del comitato di monitoraggio presentato come il segno della pretesa “discontinuità” e anche sul non aumento delle truppe regna il più fitto e inquietante mistero.
Anche questo rafforza le nostre posizioni da sempre avverse alla permanenza delle truppe italiane in Afghanistan, al fatto che noi si continui lì a fare la guerra, a combattere la guerra americana a cui il governo Berlusconi ha voluto partecipare. L’assenso alla missione Unifil 2 ci dà insomma un’opportunità in più per continuare la nostra battaglia volta a chiudere subito anche il capitolo della partecipazione italiana alla guerra in Afghanistan: per chiedere al resto della maggioranza l’unica decisione (appunto il ritiro dall’Afghanistan) coerente non solo con il programma dell’Unione ma anche con le caratteristiche di pace di quella politica estera italiana che si pretende radicalmente diversa da quella delle destre.