Signor Presidente, onorevoli colleghi, esprimerò il mio voto sul decreto-legge di proroga della partecipazione italiana a missioni umanitarie e internazionali attenendomi agli orientamenti del mio gruppo. Ritengo comunque necessario chiarire che considero del tutto infondate sia talune notizie diffuse da parte dei sostenitori della cosiddetta missione di pace in Afghanistan sia le argomentazioni di chi afferma l’impossibilità di decidere il ritiro delle nostre truppe dal teatro afgano.
Si dice che in Afghanistan le cose vanno sempre meglio; sarebbe in atto un processo di superamento dello stato di guerra; sarebbe in atto la tendenza allo sradicamento del terrorismo e sarebbe ormai pressoché compiuto il processo di democratizzazione del paese.
Si dice che in Afghanistan siamo in missione di pace, dunque impegnati in un’impresa del tutto coerente con i principi della nostra Costituzione.
Si dice ancora che in Afghanistan siamo su mandato ONU ed in conformità ad impegni inderogabili assunti con l’Unione europea e con gli alleati della NATO.
Credo e avverto il dovere politico di dire che le cose non stanno in questi termini. Cominciamo dalla situazione in Afghanistan: basterebbero, a questo proposito, gli accadimenti delle ultime quarantotto ore. Sabato 3 marzo un attentato in una via centrale di Herat (gli osservatori ritengono si sia trattato della bomba più potente mai scoppiata in quella città, che ha lanciato schegge fino ad un chilometro di distanza dal luogo dell’esplosione) ha mancato per qualche secondo due Jeep che trasportavano nostri militari.
Poiché risuonano frequenti in questi giorni gli appelli al senso di responsabilità (rivolti a chi da tempo chiede il ritiro delle nostre truppe dall’Afghanistan), penso che una manifestazione di responsabilità sarebbe chiedersi in quale clima politico si troverebbe il nostro paese e si svolgerebbe questa nostra discussione se quei pochi secondi non avessero salvato i militari italiani e oggi dovessimo commemorare altri nostri caduti.
Ieri a Jalalabad si è poi compiuta una delle più orribili stragi di civili, certo non la più grave per il numero di vittime (si parla di sedici morti e di oltre trenta feriti), ma per le modalità. I superstiti e i testimoni hanno descritto una vera e propria azione di rappresaglia, riporto testualmente la testimonianza di uno dei superstiti: «Gli americani correvano e tiravano, hanno aperto il fuoco su quattordici o quindici macchine che stavano passando, accostavano e tiravano su chiunque fosse: in auto o a piedi». La stampa parla chiaramente di «licenza di uccidere, di troppi soldati nervosi che hanno perso la testa» e della «certezza della quasi impunità in una missione di pace che ogni giorno spara all’impazzata su qualunque cosa si muova».
Ma questi gravissimi eventi rimandano ad un contesto generale, forse ancor più grave.
La missione in Afghanistan è sempre più una guerra sanguinosa. Nel corso del 2006 sono state seimila le vittime civili, il triplo rispetto all’anno precedente, più della somma di tutti morti causati dal conflitto a partire dal 2002.
Quest’anno si annuncia ancor più sanguinoso, se consideriamo che sono già 500 i morti civili nei primi due mesi e che nello stesso periodo dell’anno scorso le vittime erano 200. Il conflitto si è esteso da sud verso ovest, dove il controllo delle milizie talebane sul territorio è pressoché totale e si spinge verso le province orientali, cioè nella zona sotto comando militare italiano.
Questo mentre si annuncia una massiccia offensiva talebana o, più probabilmente, una massiccia offensiva delle forze ISAF-NATO. La missione avrebbe dovuto sradicare il terrorismo. Sta di fatto che, ad oltre cinque anni dall’inizio della guerra, presso la grande maggioranza della popolazione – anche tra quanti accolsero favorevolmente la cacciata dei talebani – cresce il favore delle milizie talebane stesse le quali appaiono alla gran parte della popolazione l’unico ombrello difensivo contro gli occupanti.
Leggo che il ministro degli affari esteri sostiene che certa sinistra, contraria alla presenza armata, non capisce che cosa significa un nuovo regime degli studenti islamici a Kabul e dovrebbe quindi leggere i testi fondamentalisti. Osservo che più di un’ipotesi – non saprei dire quanto fondata – pesa la realtà: il disastro di una guerra che sta regalando ai talebani il consenso della popolazione e che, oltre a seminare lutti e violenza, sta incendiando l’intera regione rischiando di raggiungere l’Iran. Ciò con effetti che tutti – tranne chi spinge per una nuova guerra preventiva – considerano potenzialmente catastrofici.
A proposito di violenza, è un fatto che la presenza di oltre 35 mila militari stranieri nella capitale afgana e in altri centri urbani non basti ad impedire che gli operatori delle organizzazioni non governative e delle Nazioni Unite vengano rapiti alla luce del giorno. Gli attentati si moltiplicano. Secondo l’ONU, l’Afghanistan sta affrontando disastri sanitari ancora peggiori di quelli causati dallo tsunami che si abbattè sulle coste filippine nel 2004.
La miseria dilaga: con un PIL pro-capite di 600 euro l’anno, l’Afghanistan continua ad essere tra i paesi più poveri del mondo. Diciamo che siamo lì per avviare il paese lungo la strada dello sviluppo, ma destiniamo briciole a questo fine. Gli Stati Uniti spendono per il sostegno allo sviluppo dell’Afghanistan appena il 3,5 per cento di quanto spendono in totale. L’Italia non arriva al 10 per cento. L’ultima legge finanziaria ha stanziato 30 milioni di euro per la cooperazione allo sviluppo, contro 310 milioni per il mantenimento delle truppe e dei mezzi militari.
Diciamo che siamo lì per favorire la riconversione delle colture del papavero, mentre assistiamo ad un’inedita intensificazione della produzione di oppio che fa ormai dell’Afghanistan il produttore del 90 per cento dell’oppio prodotto in tutto il mondo. Stando alle stime dell’ONU, i profitti provenienti dalla produzione di eroina coprono circa il 52 per cento delle PIL afgano.
Da ultimo, la democrazia. Si ripete che le elezioni presidenziali che hanno condotto alla elezione di Hamid Karzai sono state molto partecipate e che ora c’è un Parlamento eletto dove siedono anche alcune deputate. Ma non si dice che stupri e violenze sulle donne sono considerati reati veniali, che vige la sharia, che dietro il paravento vi è una democrazia formale esportata con la forza in osservanza a modelli occidentali e che vige con assoluta saldezza il tradizionale regime feudale. Soprattutto, si omette di ricordare che i signori della guerra, che controllano in autonomia intere aree del paese, esprimono i massimi vertici dei servizi segreti e dell’esercito e partecipano al cosiddetto «governo democratico» dell’Afghanistan, con ben 14 ministri, tra i quali quello degli interni, quello delle attività religiose e quello dell’energia.
Da questo punto di vista, si capisce che tanti impegni assunti in occasione del voto di luglio non abbiano poi avuto un seguito. Si parlò allora di istituire un Comitato parlamentare per il monitoraggio permanente delle missioni internazionali di pace in cui è impegnata l’Italia: in effetti, c’è da chiedersi perché monitorare attraverso un Comitato parlamentare ciò che è puntualmente monitorato dagli organi di stampa e dagli operatori della cooperazione presenti sul territorio. E si parla, già nella mozione votata il 19 luglio scorso, di promuovere una nuova conferenza internazionale sull’Afghanistan allo scopo di favorire un dialogo a livello regionale; qualcosa, dunque, di molto simile alla conferenza di pace che oggi viene presentata come un grande progresso e come il segno di un nuovo orientamento politico, benché qualche giorno fa, in una intervista ad un grande quotidiano italiano, il ministro D’Alema non abbia mancato di definirla con un termine molto colorito volto a chiarire che egli per primo ritiene questa conferenza a di poco improbabile. Ad ogni modo, si capisce che tutti questi impegni stentino a tradursi in realtà.
È difficile pensare ad una conferenza di pace mentre la guerra infuria e si estende e la pace appare quanto di più distante dagli intenti dei protagonisti del conflitto; il che, tuttavia, non toglie che è grave che impegni formalmente assunti rimangano sulla carta.
Quanto alla presunta connotazione pacifica della missione, sulla quale anche il Presidente Napolitano ha insistito con grande forza, a garanzia della piena conformità della missione ai principi costituzionali, potrebbe essere sufficiente ricordare quanto disse il 13 giugno dell’anno scorso il senatore Lamberto Dini, presidente della Commissione affari esteri, esponente indubbiamente autorevole di questa maggioranza: «Non mi pare» – così si espresse – «che ci sia spazio per ridiscutere la nostra presenza in Afghanistan. Nessuno ha mai detto che era una missione di pace». Sarebbe anche istruttivo ricordare in che termini definisca la missione in Afghanistan il senatore Cossiga, il quale è tra i più aspri oppositori di questa missione, non già perché auspichi la fine delle ostilità, ma perché, ben conscio della guerra in corso, vorrebbe che le truppe italiane fossero poste in condizione di combatterla fino in fondo, al pari dei militari americani e inglesi. Ma è utile soprattutto citare brevemente quanto ha affermato il 24 gennaio 2007 un osservatore competente e imparziale come il generale Fabio Mini, ex comandante NATO, poc’anzi citato anche dal collega Cacciari: «La guerra ai talebani non è metaforica come la guerra del merluzzo o del vino. E non è più nemmeno un episodio della guerra al terrorismo. Lo scopo della guerra, inizialmente incentrato sulla distruzione delle basi terroristiche, si è trasformato in quello di abbattimento di un regime. Ora la guerra continua contro gli stessi sostenitori o appartenenti a quel regime. La NATO oggi partecipa attivamente a questa guerra. Farla passare per un’operazione di pace è veramente un’ipocrisia. Ma anche far passare tutti gli avversari come affiliati di Al Qaeda o come terroristi è scorretto». Sono parole che credo si commentino da sé e valgono molto più di assicurazioni retoriche, pur provenienti da fonti autorevolissime.
Resta da dire qualcosa sulla copertura giuridica della missione e sul connotato stringente, cogente dei nostri impegni. Si mette in mezzo l’ONU, quando si sa che l’ONU autorizzò la missione il 20 dicembre del 2001, due mesi dopo i bombardamenti a tappeto degli aerei americani su Kabul, e quando si sa che da quattro anni a questa parte, precisamente dall’aprile del 2003, con un vero colpo di mano, la NATO ha riassunto il comando della missione ISAF, divenuta sostanzialmente tutt’uno con la missione Enduring Freedom.
Si chiama in causa l’Unione europea che, pur avendo promosso in questi mesi un intervento finalizzato all’addestramento delle forze di polizia afgane, non ha invece mai esplicitamente ratificato l’avallo alla missione ISAF.
La verità è che quella in corso in Afghanistan è una guerra della NATO, dunque una guerra saldamente guidata dalla catena di comando americana. È vero: noi siamo parte della NATO, ma anche a questo riguardo corrono troppe omissioni in questa nostra discussione. Si sostiene che non ci si può sottrarre alle decisione di alleanze di cui si è parte, ma si dimentica che sono molti i precedenti di paesi membri che hanno detto «no» alla richiesta di cooperare ad imprese belliche decisa dall’Alleanza atlantica. La Grecia, nel marzo del 1999, si rifiutò di concedere le proprie truppe, e persino sostegni logistici, a quella che considerò, peraltro a ragione, una guerra di aggressione nei confronti della Serbia. Nel 2003, la Turchia si rifiutò di partecipare all’attacco contro l’Iraq, definendolo una avventura ingiustificata, e negò le truppe e le autorizzazioni al sorvolo per i cacciabombardieri americani.
Ma, al di là dei dati di fatto, c’è un dato di diritto che va considerato con particolare attenzione: l’articolo 5 del nuovo statuto della NATO, che il ministro D’Alema conosce assai bene, essendo il frutto degli accordi di Washington che egli sottoscrisse a nome dell’Italia nel 1999, chiarisce che «i paesi membri dell’Alleanza concordano insieme le misure di autodifesa individuale o collettiva», ma chiarisce altresì che ciascun paese membro della Alleanza metterà in atto quelle misure di autodifesa che esso, «individualmente», riterrà necessarie.
Non è vero dunque che i singoli paesi siano obbligati a concorrere ad una guerra di cui non condividano finalità e metodi. Forse sarebbe più giusto che si dicesse che l’Italia ha scelto e continua a scegliere di condividere le decisioni della NATO e degli Stati Uniti.
Si tratta di una scelta, precisamente come a Vicenza, della quale bisognerebbe assumersi la responsabilità, evitando di farsi schermo con presunti vincoli indisponibili, che peraltro mortificherebbero l’idea stessa della sovranità nazionale.
Detto questo, come affermavo all’inizio di questo mio intervento, mi atterrò alle decisioni che prenderemo insieme, nel mio gruppo. Ciò per spirito di disciplina, certo, ma anche per un’altra ragione che forse tutti noi dovremmo prendere in maggiore considerazione.
Questa legislatura vede una drammatizzazione esasperata della dialettica parlamentare. Ogni voto viene sovraccaricato di significati impropri, che eccedono il merito delle questioni discusse; ogni voto tende ad assumere il significato improprio di un voto di fiducia.
Questa è una patologia del sistema politico, prodotta da un bipolarismo coercitivo non rispondente alla composizione politica del paese reale.
È una patologia che rischia di cancellare la centralità del Parlamento e di impedirne la libera espressione. È questa una materia alla quale occorre pensare con attenzione e lungimiranza e senza partigianeria, adesso che si riapre la discussione per riformare la legge elettorale.
Bisognerebbe avere chiaro che non vi può essere democrazia (nemmeno quella democrazia «governabile e governante» di cui ha parlato il presidente Prodi in occasione del recente dibattito sulla fiducia), se si assume in modo unilaterale e talora ossessivo il vincolo della governabilità. L’esigenza della governabilità è reale ma va tenuta in tensione ed equilibrio con il vincolo della rappresentanza, che viene rispettato solo se il Parlamento torna ad essere un luogo di formazione e non di semplice ratifica della decisione politica.
Concludo, signor Presidente, con un’ultima breve considerazione. Qualche giorno fa, un membro assai autorevole del Governo ha ritenuto di dire che ne L’Unione ci sono partiti di Governo e partiti (che egli ha definito «sinistra radicale o massimalista») di semplice testimonianza, che riterrebbero sia loro compito solo «piantare delle bandierine». Si potrebbe osservare che non è certo il modo più rispettoso di riferirsi ai convincimenti dei propri alleati, né tantomeno il più unitario. Ma non è questo il punto politico. Il punto politico è che, con questa rappresentazione, il presidente Rutelli mostra di ritenere che governare equivalga per forza di cose a prendere determinate decisioni, ad assumere determinate scelte, a perseguire ben determinate finalità, e che invece, facendo altro, mirando ad altro, compiendo altre scelte, governare sarebbe semplicemente impossibile.
Non è così. Noi pensiamo esattamente il contrario: che sarebbe possibile non soltanto governare ma governare meglio, in un modo più aderente alla nostra Costituzione e a quanto vuole la nostra gente, facendo scelte diverse: in questo caso, venendo via dalla guerra afgana, riportando a casa le nostre truppe dai teatri di guerra in cui sono impegnate. Purtroppo il Governo non ha ancora maturato questo orientamento, ma noi rimaniamo impegnati per affermarlo e continueremo a lavorare con determinazione, affinché ad esso si ispirino le scelte prossime di questo Governo (Applausi dei deputati dei gruppi Rifondazione Comunista-Sinistra Europea e Comunisti Italiani).