Intervento di Alberto Burgio sugli infortuni sul lavoro

Signor Presidente,

A nome del gruppo Rifondazione Comunista – Sinistra Europea ringrazio il governo per la puntuale informazione fornita all’aula in merito ai tragici incidenti costati la vita mercoledì scorso a tre lavoratori e gravissime ferite ad altri due a sant’Angelo all’Elsa e a Salerno; vittime che si aggiungono ai morti di Campello sul Clitumno e alla lunghissima teoria di morti sul lavoro che questo Paese da troppo tempo è costretto a piangere, quasi si trattasse di una fatalità dinanzi alla quale altro non è dato fare se non inchinarsi impotenti.
Non è così. Perché al di sotto di una certa soglia gli incidenti sono incidenti, ma oltre quella soglia no. Se la si supera, vuol dire che c’è qualcosa che non funziona: a monte, nelle misure di sicurezza; a valle, nei controlli. E questa soglia il nostro Paese la oltrepassa stabilmente da diversi anni, il che gli consegna il poco invidiabile primato europeo nella classifica delle morti bianche (nel 2005 in Italia se ne sono registrate 1200, in Germania 901, in Francia 782).
Questo è il punto, signor Presidente, che pone ciascuno di noi – tutte le forze politiche senza distinzioni, ma con particolare forza il governo in carica – dinanzi a precise responsabilità. È prima di tutto un problema di misure specifiche (vi accennerò tra breve). Ma le misure specifiche sulla sicurezza non esauriscono il discorso. Non si comprenderebbe quanto sta accadendo – questa ondata di infortuni e di morti – se prescindessimo da qualsiasi considerazione generale sulla condizione del lavoro oggi in Italia e in tutta Europa.
Quando si affrontano i temi dei cosiddetti “costi del lavoro”, dei contratti e della produttività (di cui sappiamo che si discuterà con grande fervore nelle prossime settimane) bisogna tenere ben presente che c’è un filo rosso (rosso, talvolta, anche di sangue) che lega al tema degli infortuni sul lavoro e delle morti bianche l’esasperata tensione alla riduzione dei costi dettata da una concezione dell’attività imprenditoriale che subordina ogni altro valore alla ricerca immediata del massimo profitto (e che peraltro non conduce alla crescita del Paese, ma è invece in larga misura responsabile delle gravi difficoltà del suo apparato produttivo).

Sono figlie di questa attitudine le due principali fonti di rischio:
– la precarietà, che si alimenta dei processi di esternalizzazione e dell’allungarsi delle filiere dei subappalti, in particolare nel settore dei servizi alle imprese (la manutenzione degli impianti è una delle attività a più alto tasso di incidentalità);
– il lavoro nero (in particolare nell’edilizia – l’Istat nel 2005 ha accertato il 15,5% di lavoratori irregolari – e nell’agricoltura, dove si raggiungono quote di irregolarità vicine al 70%).
In entrambe le condizioni il lavoratore è sotto ricatto ed è costretto a condizioni di estremo sfruttamento (bassi salari e sovraesposizione ai rischi) perché c’è un rischio ancora più grave, che li sovrasta tutti: perdere il lavoro e, con il lavoro, ogni fonte di sostentamento per sé e per la propria famiglia.

Sono state qui ricordate alcune cifre: i 940.000 infortuni rilevati dall’Inail nel 2005; la crescita degli infortuni, nel primo trimestre 2006, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, del 3,3% (del 3,7% nell’industria e nei servizi). Si è detto anche del costo sociale di questi numeri: 41 miliardi di euro all’anno, una quota di circa il 3% del Pil.
Ma le cifre possono essere diversamente interpretate, diversamente commentate. Da parte mia, voglio aggiungere a quanto è stato sin qui detto dal governo e dai colleghi che mi hanno preceduto poche considerazioni, che spero siano accolte dal governo con lo stesso spirito costruttivo che le ispira.

Nelle scorse settimane sono state assunte alcune misure positive, nelle quali ravvisiamo la volontà di affrontare il problema della sicurezza sul lavoro.
Mi riferisco in particolare:
– al pacchetto sicurezza contenuto nel decreto legge Bersani-Visco n. 223 del 4 luglio 2006 (convertito in legge 248 del 4 agosto 2006) e segnatamente all’articolo 36 bis contenente misure normative ed ispettive come l’obbligo nei cantieri edili, per il datore di lavoro, di munire il personale occupato di tessera di riconoscimento e l’obbligo di registrare il contratto di lavoro il giorno antecedente a quello di instaurazione del rapporto di lavoro medesimo;
– allo stanziamento dei fondi necessari per l’assunzione di 800 nuovi ispettori del lavoro (attualmente gli ispettori in servizio sono meno di 2300, a fronte di circa 1 milione e mezzo di imprese).

Misure che valutiamo positivamente pur se in un contesto segnato dall’ampia generosità del governo (art. 177 e 178 della Finanziaria), che estingue le sanzioni a carico delle imprese ree di aver violato l’obbligo, stabilito dal Testo Unico sulle assicurazioni contro gli infortuni, di rifondere all’Inail l’ammontare delle prestazioni liquidate per infortuni avvenuti in assenza di adeguate condizioni di sicurezza.

Ma le regole da sole non bastano se non ci sono controlli severi, puntali, costanti tanto più che le imprese – anche pubbliche – mal tollerano e quindi ostacolano indagini.
I dati emersi dalle più recenti ispezioni la dicono assai lunga sulla reale condizione di irregolarità in cui si lavora in Italia in alcuni settori. Nei primi sei mesi del 2006 dall’attività di vigilanza dell’Inps sono emersi quasi 35.000 lavoratori irregolari e 451 milioni di euro di contributi evasi, di cui 187 riferiti al lavoro nero. In sei mesi sono state scoperte oltre 42.000 aziende irregolari: ben l’82% delle imprese visitate.
Sulla base del decreto legge 223/2006, inoltre, tra il 12 agosto e il 31 ottobre sono stati effettuati quasi 5000 accessi nei cantieri: il 56% delle imprese è risultato irregolare, così come il 28% dei lavoratori.

In circostanze come questa si suole dire: non è il momento di dividersi, ma di unire le forze per fronteggiare l’emergenza con la necessaria determinazione. Lo pensiamo anche noi, purché l’unità delle forze sortisca effettivamente i risultati che la motivano.
Alcuni segnali andrebbero nella direzione auspicata:
– correggere la riduzione generalizzata dei premi Inail prevista dall’art. 178 della Finanziaria;
– abrogare il Dlgs 124 del 23 aprile 2004, che riduce l’autonomia degli enti previdenziali in materia di servizi ispettivi e snatura il ruolo dell’ispettore del lavoro;
– modificare l’attuale articolo 117 della Costituzione, riaffidando allo Stato competenza diretta ed esclusiva in materia di «tutela e sicurezza del lavoro».

Concludo, signor Presidente, con un’ultima semplice riflessione. Quando i nostri costituenti vollero indicare nel lavoro il fondamento della nostra Repubblica non si limitarono a richiamare un dato di fatto, spesso misconosciuto. Intesero, nel richiamarlo, fissare uno stringente principio normativo, in base al quale il lavoro dev’essere riconosciuto quale fonte primaria di ricchezza e di progresso, ma proprio perciò dovrebbe essere, innanzi tutto per chi lo svolge, fonte di senso, luogo di realizzazione di sé.
Credo che a noi tutti in questa giornata si richieda uno sforzo di sobrietà e di onestà intellettuale, affinché i richiami alla Costituzione non si esauriscano in esercizi retorici e in stucchevoli liturgie.
Dobbiamo riconoscere che oggi – complice una cultura che santifica il successo e la ricchezza e che colloca le leggi del mercato al di sopra dei valori di solidarietà e giustizia sociale – il lavoro è per tanti nostri concittadini motivo di frustrazione e di ansia ed anche – come le tragedie di cui stiamo parlando dimostrano – di grave sofferenza. Facciamo tutti la nostra parte perché questo stato di cose cessi al più presto e al lavoro siano restituiti tutti i diritti e tutte le tutele che gli competono.