Intervengo sulla relazione di Franco Russo, limitandomi alla parte della Direzione dedicata al referendum costituzionale. Referendum a proposito del quale concordo con quanti lo considerano il voto più importante di tutti quelli che si sono susseguiti a cominciare da aprile. È il più importante perché ne va non soltanto della Carta fondamentale della Repubblica ma, data l’ampiezza delle modifiche messe in cantiere dalla destra, della stessa natura delle istituzioni e della forma di governo.
Proprio per questo si tratta di votare no “senza se e senza ma” e di mobilitarsi come il partito sta facendo – forse non abbastanza le altre forze dell’Unione – affinché questi ultimi giorni valgano a segnalare all’opinione pubblica l’importanza del referendum e la necessità di vincerlo.
Dicevo che si tratta di votare no in modo netto e senza condizioni ed è chiaro che intendevo con ciò riferirmi criticamente a quanti invece cominciano già a mettere in campo discorsi “riformatori”, ad invocare “no” come premessa di altri “sì”, a sostenere che la cancellazione della controriforma della destra altro non sia che la base per nuove e non meno profonde revisioni della Costituzione del 1947. Oltre ad essere del tutto arbitrari e sbagliati nel merito, questi discorsi sono pericolosi e vanno respinti senza incertezza e reticenza perché tendono a produrre disorientamento e rischiano di indebolire la battaglia che stiamo combattendo per allontanare il rischio incombente.
Il compagno Russo tuttavia ci sollecita a ragionare sulle modifiche del testo che, comunque, si tratterà di realizzare e di proporre nel corso della legislatura: capisco e raccolgo questa sollecitazione anche se il contesto politico generale sconsiglierebbe qualunque riflessione di questo tipo. Dobbiamo infatti essere consapevoli della prevalenza di precise istanze “riformatrici”, profondamente segnate dalle opzioni presidenzialistiche, “federalistiche” e maggioritarie che hanno segnato la lunga guerra che un vasto schieramento di forze politiche, anche a sinistra, viene combattendo dall’inizio degli anni ‘90 contro la centralità del Parlamento e per la secca riduzione del ventaglio degli interessi sociali rappresentati nelle istituzioni.
Se non si tiene presente che tutta la pressione verso nuove riforme costituzionali si inscrive nel processo di trasformazione che viene sviluppandosi fino dagli anni Ottanta (attraverso la tenaglia del neo-liberismo sul piano delle politiche economiche e sociali e attraverso l’assunzione del vincolo della governabilità sul terreno delle riforme istituzionali) non si coglie né la coerenza complessiva della tendenza né la sua devastante potenza.
Potenza che è oggi ancor più forte poiché l’adesione dell’Italia al Patto di Stabilità impone la sanzione formale (e, per alcuni, appunto, la costituzionalizzazione) della cessione di significative quote di sovranità da parte delle istituzioni rappresentative.
Detto questo, e volendo comunque ragionare di riforme in chiave di libera riflessione (secondo quanto auspicato di recente da Gaetano Azzariti), convengo sulla necessità di modificare l’improvvida riforma del titolo V operata dal centrosinistra e foriera di insolubili contenziosi tra Stato e Regioni e sull’esigenza di superare il bicameralismo perfetto. Aggiungo, come personale contributo, due ulteriori ipotesi. Mi chiedo in primo luogo se non valga la pena tornare sugli articoli 41, 42, 43 che definiscono i rapporti tra iniziativa economica privata e “utilità sociale” per rafforzare e conferire effettività al primato di quest’ultima e per porre in Costituzione precisi limiti alla privatizzazione di risorse, beni e servizi di interesse generale. Penso, in altri termini, alla costituzionalizzazione del concetto di bene comune.
E penso ancora all’ipotesi di costituzionalizzare i principi base della rappresentanza in modi tali da allontanare il rischio di forzature, sul piano della legge elettorale, tese ad escludere dalla rappresentanza istituzionale soggetti e interessi deboli. È significativo che tanto la riforma “della destra” quanto pressoché tutti i disegni “riformatori” invocati anche da quanti oggi militano tra le file del no considerano opportuna l’introduzione di una norma anti-ribaltone che, oltre a comportare la cancellazione della libertà del mandato parlamentare, opererebbe una costituzionalizzazione surrettizia del maggioritario. Ritengo che ci si dovrebbe invece muovere in una direzione specularmente opposta, introducendo norme e vincoli che facciano emergere la vigenza del proporzionale implicita nell’architettura istituzionale sottesa alla Carta del 1947.
Chiudo con un’altra proposta, apparentemente marginale. Il cedimento delle classi dirigenti di fronte al pesante attacco sferrato contro la Costituzione dai poteri forti nel corso degli ultimi venticinque anni è stato facilitato e potenziato dal mancato radicamento della cultura costituzionale nel Paese. Ma non c’è Costituzione se i valori, i principi e le norme fondamentali della Costituzione non sono senso comune di massa. In che misura questo sia oggi un problema lo dice l’egemonia anti-politica che ha costituito una delle leve fondamentali della prevalenza della destra sin dai primi anni ‘90 e, per fare un altro esempio, il rovinoso dilagare del revisionismo storico.
Non vi è motivo di sorprendersi a questo riguardo se si tiene presente la carica critica – in senso proprio: di classe – che ispira la carta del 1947.
In base a queste riflessioni ritengo che dovremmo proporre che la Costituzione, che oggi si tratta di salvare e ripristinare, divenga subito dopo materia obbligatoria di insegnamento nelle scuole medie di primo e secondo grado del Paese. Non penso ad una stanca ripetizione della vecchia e tuttavia non inutile Educazione Civica. Immagino piuttosto programmi scolastici sulla storia della Costituzione (il che darebbe la possibilità di far conoscere ai nostri giovani la vicenda della lotta partigiana e le culture dell’anti-fascismo confluite nella grande esperienza della Costituente); sui principi e sui valori della Carta (il che consentirebbe l’approfondimento di aspetti fondamentali della cultura e dell’esperienza democratica); e infine sull’architettura istituzionale della Repubblica (approfondendo in particolare l’esigenza di un equilibrio tra poteri nonché la necessaria complessità della legittimazione democratica).
Non mi nascondo certo che la scelta dell’attuale ministro dell’Istruzione non è, da questo punto di vista, un fattore univocamente incoraggiante. Penso tuttavia che sia compito di una forza come la nostra, di un partito come il nostro, impegnarsi con determinazione per costruire il più ampio fronte di forze favorevoli a questa battaglia.