Intervento al Congresso nazionale P.R.C.

Care compagne e cari compagni,
non posso che aprire questo mio intervento parlando della Palestina. Sono orgoglioso di militare in un partito che ha aperto il suo congresso facendo intervenire Nemer Hammad. Ho sentito in quel lungo applauso che tutti noi gli abbiamo voluto fare non solo una manifestazione d’affetto, ma un moto di rabbia, una disponibilità alla lotta internazionalista, un legame profondo con il popolo palestinese e la sua giusta lotta.
Credo che ieri il centro-sinistra e Cgil-Cisl e Uil abbiano sbagliato ad abbandonare la manifestazione di Roma. Che significa dire che “la manifestazione è troppo sbilanciata verso i Palestinesi”? Ci sono forse due vittime in Medio Oriente? Ci sono forse due posizioni entrambe estreme che perciò vanno egualmente criticate?
No, compagne e compagni, lì c’è un aggressore che si chiama Stato di Israele e un aggredito che si chiama popolo palestinese; c’è un terrorista che dovrebbe essere processato e arrestato da un tribunale internazionale per il massacro di Sabra e Chatila, che si chiama Sharon, e un combattente da una vita per la libertà che si chiama Arafat, sequestrato ignobilmente da ormai tre mesi, senza che la comunità internazionale abbia saputo produrre qualche azione concreta.
Si dice che, però, ci sono anche i terroristi palestinesi, i kamikaze che uccidono vittime innocenti. E’ vero, ma anche questo è una causa della politica dello Stato israeliano che, non concedendo a un popolo la propria terra in cui vivere; distruggendo villaggi, case, scuole per fare spazio ai coloni, semina disperazione, alimenta odio, vendetta, fino a produrre quel gesto di disperazione estrema che può portare una ragazza di 16 anni ad imbottirsi di esplosivo e a farsi saltare in aria. E’ Sharon il responsabile di quegli attentati, non Arafat. E’ la politica israeliana, che impedisce ai palestinesi di avere un proprio Stato, a generare il terrorismo.
Le manifestazioni devono avere quindi una critica precisa, la politica dello Stato di Israele e un obiettivo chiaro “Libertà per Arafat, Stato per la Palestina”.
Ma ci sono altri popoli che – assieme ai palestinesi – in queste ore stanno soffrendo. Vorrei ricordarne uno per ricordarli tutti: i prigionieri politici della Turchia. Alcune settimane fa, in una commovente intervista al manifesto, Aydin Hanbayat – militante del Partito comunista turco –, uno dei tanti detenuti politici in sciopero della fame ad oltranza, diceva: “Mi rivolgo a voi compagni italiani, europei per chiedere una sola cosa: parlate, spiegate, denunciate dove vi è possibile il massacro che il regime turco sta perpetrando impunito contro la sinistra del paese. Non mi riferisco soltanto al massacro dei prigionieri politici, ma al massacro quotidiano della nostra gente, studenti, lavoratori, disoccupati, artisti, che vengono arrestati, torturati, distrutti e umiliati fisicamente e psicologicamente perché esprimono le loro idee. Perché vogliono e lottano per un mondo diverso. Ma il regime turco non riuscirà a piegarci”.
Ecco cosa avviene nella ‘democratica’ Turchia, alleato decisivo degli Usa nel Medio Oriente, che oltre a ciò continua a negare i più elementari diritti del popolo curdo e continua a tenere sotto sequestro il nostro compagno “Apo” Ocalan!
C’è stato in questi giorni un nostro carissimo compagno che, in pochi minuti – 6 per la precisione – ha denunciato al mondo intero i crimini del neoliberismo. Si tratta del compagno Fidel Castro. Intervenendo alla Conferenza Onu svoltasi in Messico ha detto: “Gli abitanti del mondo sviluppato vivono 30 anni in più di quelli dell’Africa sub-sahariana. Un vero genocidio. Non si può incolpare di questa tragedia i paesi poveri, essi non hanno conquistato e saccheggiato per secoli interi continenti, né hanno fondato il colonialismo, né hanno reintrodotto la schiavitù, né hanno creato il moderno imperialismo.”
Moderno imperialismo, appunto, di cui Fidel Castro ci ricorda l’esistenza. D’altra parte, le tre guerre combattute in questi ultimi 10 anni – quella del Golfo, quella jugoslava e quella afgana – che hanno avuto come causa scatenante il controllo di zone ricche di petrolio e di passaggi di importanti oleodotti, cosa sono state se non guerre causate dalla volontà di dominio dell’imperialismo americano?
Ma in questi giorni, oltre a Fidel Castro, qualcun altro ci ha ricordato l’esistenza di un nuovo imperialismo, si tratta di Tony Blair che, assieme al suo consulente per la politica estera Robert Cooper, ha pubblicato un libro dal titolo emblematico “Riordinando il mondo” dove si dice “La Gran Bretagna è chiamata a un nuovo tipo di imperialismo”, vi è “la necessità di una colonizzazione, urgente quanto quella del diciannovesimo secolo”.
Nuovo imperialismo, moderno imperialismo: categorie quindi più che mai attuali e non superate.
Inoltre, a dimostrazione dei contrasti che persistono tra le varie economie capitalistiche o, se si preferisce, tra i vari poli imperialistici, gli Stati Uniti, alla faccia del liberismo, hanno attivato misure protezionistiche. – con dazi del 30% – sulle importazioni di acciaio, che colpiscono pesantemente le economie europee e asiatiche.
Si tratta di un episodio di vera e propria guerra commerciale che smentisce la tesi di un governo economico unipolare del mondo e che conferma – pur dentro un processo di tumultuosi cambiamenti – il ruolo importante degli stati anche nelle scelte di politica economica, oltre che in quelle militari.

* * * * *

Condivido molto la parte della relazione di Bertinotti sull’importanza della ripresa del conflitto di classe e sul ruolo positivo svolto in questa fase dalla Cgil. La grande manifestazione del 23 marzo è stata una manifestazione del popolo della sinistra. Il mondo del lavoro ha alzato la sua voce contro il governo e i padroni.
Ma perché tanta gente?
Perché questa carica combattiva dopo tanti anni di silenzio?
Io credo perché si è percepito che conquiste che diamo per scontate possono non esserlo più. Con la difesa dell’articolo 18 questo popolo è sceso in piazza per difendere la libertà, la democrazia, la giustizia. Perché percepisce che questo governo può operare pesanti azioni di sfondamento.
Una grande manifestazione operaia e popolare che ha archiviato in un colpo solo le tesi così in voga nel decennio passato, ma presenti anche oggi in certa sinistra, della fine del lavoro, della marginalità del conflitto tra capitale e lavoro, della scomparsa – assieme alla fabbrica fordista – anche del lavoratore dipendente, organizzato dai sindacati. Cancella in un sol colpo la stucchevole tesi secondo la quale non ci sarebbe più il popolo di sinistra. La manifestazione del 23 marzo è un grande episodio di scontro di classe. La difesa dell’articolo 18 è importante anche in sé, non sottovalutiamola. Così come negli anni 50 costruirono i reparti-confino, oggi cancellando l’articolo 18 vogliono licenziare i delegati più combattivi.

* * * * *

Nella sua relazione Fausto ha detto che i 4 emendamenti, che anche io ho sottoscritto, avrebbero il difetto di attenuare la radicalità della svolta.
Vorrei dirti, Fausto, che non è detto che avere un contrappeso o, come dice Rossana Rossanda nel suo articolo sul nostro congresso, una robusta “cintura di sicurezza”, debba essere per forza un limite. Per esempio, la valutazione positiva che tu stesso hai dato della battaglia che la Cgil sta conducendo contro la politica economica del governo non apparirebbe così strana ai commentatori politici, e anche ai nostri iscritti, se avessimo evitato di parlare di “sciopericchi”, oppure di dare un giudizio eccessivamente stroncante del congresso della Cgil nel corso del quale – tra l’altro – è emersa una importante posizione di contrarietà alla guerra.
Dobbiamo imparare a rispettarci, pur nelle opinioni diverse; non ci sono in questo partito “piombi nelle ali”, uccelli che potrebbero volare alto, ma che non riescono a farlo perché trattenuti da fardelli ingombranti.
In questo partito ci sono tanti compagni e compagne che generosamente, tutti, con le loro capacità, spesso sbagliando, sono protagonisti di battaglie straordinarie senza le quali questo partito non vivrebbe e anche noi, gruppo dirigente, semplicemente non esisteremmo.

Si è detto congresso di svolta, anzi, di svolta a sinistra. Vedremo. Dove portano le svolte – come la storia ci ha dimostrato – lo si può vedere solo con il tempo.
Per parte mia, anch’io credo necessaria una svolta nell’azione del partito. Avverto la necessità di un partito più combattivo, più presente nei luoghi del conflitto, più mobilitato sulle questioni internazionali.
Vorrei un partito che, quando avviene un fatto come la cattura di Arafat, scende nelle piazze e nelle strade di tutta Italia, immediatamente.
Vorrei un partito i cui circoli fossero prioritariamente impegnati nel contrastare e denunciare le vecchie e nuove forme di sfruttamento. In quelle fabbriche, in quei cantieri – e sono ancora tanti – oppure, se vogliamo, in quei grandi supermercati dove lo straordinario non ha più limiti, dove i ritmi di lavoro sono ritornati ai livelli degli anni 60, dove i migranti sono relegati a svolgere le mansioni più dure e nocive, dove le assunzioni a tempo determinato vengono usate come ricatto per accettare qualsiasi condizione, dove i morti e gli infortuni sul lavoro continuano ad aumentare.

Abbiamo fatto un congresso impegnativo.
Dobbiamo essere sinceri tra di noi; in molte situazioni, in troppe, il confronto tra opinioni diverse si è trasformato in scontro distruttivo.
Alla legittima aspirazione di vedere affermata la propria opinione si è sostituita una modalità di lotta politica che, trascendendo completamente dai contenuti, ne ha compromesso la fecondità.
Ma il dibattito è stato utile. Anche questi giorni di Rimini, sia per gli interventi degli esterni, che per il confronto che è continuato tra di noi, hanno portato un contributo ulteriore.
E’ compito di tutti noi cercare di ricucire rapporti unitari in quelle situazioni dove più duro è stato lo scontro.
Abbiamo da affrontare già nei prossimi giorni la seconda seduta dei congressi di federazione. Entro tre mesi ci saranno i congressi regionali. Mi chiedo: è possibile discutere assieme eventuali cambiamenti, soprattutto in realtà importanti, evitando di procedere – da una parte o dall’altra – a colpi di maggioranza? Io credo di sì.
E’ possibile accantonare la tentazione – questa sì stalinista – di costituire organismi omogenei della maggioranza della maggioranza?
E in quelle realtà – e sono numerose, anche in città e regioni assai importanti – dove la maggioranza non arriva al 50%, come si governa il partito?
Noi abbiamo il dovere – già in questo congresso – di trovare uno sbocco unitario. Ce lo chiede la nostra gente, ce lo chiede la realtà esterna nella quale possiamo svolgere un ruolo importante.
Da questo punto di vista, sono d’accordo con le proposte politiche contenute nella relazione e già anticipate nell’intervista all’Unità dei giorni scorsi, ciò conferma il fatto che – nonostante le differenze su temi strategici o di cultura politica sui quali la discussione non si conclude con un congresso – sulla linea del partito si possano trovare solide convergenze.
C’è un filo rosso che lega questa maggioranza. E’ un filo che non si spezzerà, perché si è irrobustito non nel vuoto pneumatico di qualche centro studi, ma nello scontro politico e sociale di questi anni nel paese:
· Dalla scelta fatta ai tempi del governo Dini, alla decisione di fare l’accordo di desistenza con Prodi;
· Dalla rottura di quella esperienza, quando abbiamo percepito che veniva minata la nostra autonomia, alla battaglia per impedire che la drammatica scissione che ne seguì travolgesse in modo irreparabile il nostro partito;
· Dalla lotta contro la guerra e a quel centro-sinistra che la appoggiò, alla presentazione autonoma alle elezioni politiche del maggio scorso.

Care compagne e compagni, ho concluso.
Questi passaggi hanno consolidato una linea e anche un gruppo dirigente.
Con una forte tensione unitaria possiamo riportare questo nostro piccolo-grande partito, nei prossimi anni, a grandi traguardi sia politici che organizzativi.