Care compagne e cari compagni,
penso che abbiamo motivo di essere contenti del lavoro svolto in preparazione a questo nostro quinto Congresso. Il partito ha discusso, con una partecipazione appassionata che va considerata un acquisto per tutti. Il dibattito è stato, a tratti, anche aspro, è vero. Ma non poteva e non doveva essere altrimenti. Chi crede nelle proprie idee le sostiene con vigore e questo è un bene, perché pone tutti in grado di capire e di farsi un’idea precisa delle tesi in campo. Abbiamo partecipato a un dibattito vivo e utile. E siamo riusciti credo lo si possa dire senza trionfalismi ad evitare i due pericoli, opposti e coincidenti, che erano in agguato. Da un lato, il pericolo che il timore dei contrasti spingesse verso la reticenza e l’unanimismo. Dall’altro, il rischio che le divergenze si tramutassero in contrapposizioni laceranti. Non è stato così, a dispetto di qualche forzatura polemica. Per questo la scelta del congresso a tesi si è rivelata giusta. E a quei compagni ce temono che la discussione metta a repentaglio l’unità del partito vorrei dire che no, questo timore non dobbiamo averlo. Certo, si può discutere meglio di quanto non abbiamo fatto questa volta. Dobbiamo imparare a discutere meglio. Ma meglio, non meno di quanto abbiamo fatto nelle settimane che ci hanno portato qui. Dobbiamo continuare questa discussione, perché il partito ha bisogno dell’intelligenza e della competenza di tutti, in una fase, come questa, nella quale i conflitti si riaprono e si moltiplicano, su uno sfondo di mutamenti vorticosi. Bastino a questo proposito due esempi, offerti dalla più recente attualità politica.
Il conflitto mediorientale, in primo luogo. La violenza dello scontro si è tal punto radicalizzata che c’è una sola parola per definire lo stato dei rapporti tra Israele e i palestinesi nei territori occupati. Israele fa guerra, per volontà espressa del suo governo. Del resto, Sharon non ha mai fatto mistero di non volere una soluzione pacifica. E dopo l’11 settembre si è mosso con determinazione per sfruttare il clima di guerra internazionale e per trarne sostegno al proprio progetto di disfarsi una volta per tutte dell’Autorità nazionale palestinese. Ma la realtà è diversa da come la si progetta. In Medio Oriente il quadro del conflitto si evolve in modo non previsto, pur in presenza di un’enorme sproporzione tra le forze in campo. Da ultimo, le prese di posizione dei paesi arabi anche più moderati, se per un verso accrescono a dismisura il rischio che il conflitto dilaghi in tutta la regione con conseguenze imprevedibili sul piano mondiale, dall’altro lato pongono oggettivamente un limite agli arbitri e ai soprusi del governo israeliano. La tensione che si registra in tutto il mondo arabo non ha precedenti dalla guerra dei Sei giorni. L’Egitto, la Libia, il Libano, la Siria, l’Arabia Saudita, il Kuwait (oltre ovviamente all’Iraq e allo Yemen) minacciano di intervenire anche militarmente. E rivolgono queste minacce consapevolmente e duramente anche agli Stati Uniti, non al solo Israele. Torna l’idea che Israele non possa convivere con i paesi arabi. Non voglio commentare questo stato di cose, che preoccupa (anche per il cortocircuito che riattiva con posizioni antisemite in Europa) e che non può che addolorare chiunque ami veramente la pace. Mi limito a sottolineare come non resti l’ombra di quella “unione sacra” contro il terrorismo internazionale che, appena qualche mese fa, ha suggerito l’idea che fosse passato il tempo della pluralità dei centri di potere politico mondiale. Non solo i conflitti si moltiplicano. Si moltiplicano anche i centri di decisione e di potenza che questi conflitti coinvolgono. Non c’è solo il conflitto tra Stati capitalisti e masse di diseredati, ci sono anche molti conflitti tra potenze politiche mondiali. Al punto che la stampa americana più autorevole non fa mistero sul fatto che Bush ha riaperto il discorso sull’opzione nucleare in riferimento cito dall’editoriale di «Nation» del 1° aprile a «“evenienze” che potrebbero richiedere un attacco nucleare su Russia, Cina, Corea del Nord, Libia, Siria, Iraq o Iran».
Il quadro si evolve con rapidità e richiede, dicevo, l’attenzione e l’intelligenza di tutti. Questo vale anche per il nostro paese. La manifestazione del 23 marzo e la proclamazione dello sciopero generale hanno profondamente modificato lo scenario politico, già segnato dall’irruzione del movimento contro la globalizzazione capitalistica. Hanno rimesso al centro con forza il conflitto del lavoro contro il capitale, quel conflitto che era parso a taluno appannarsi per effetto delle trasformazioni dei processi di riproduzione. Quella classe, quel movimento sindacale che sembravano scomparsi si sono ripresi la più clamorosa rivincita. Non ne siamo sorpresi, perché non abbiamo mai smesso di pensare che il lavoro sia il cuore del processo sociale e del conflitto di classe, e perché non abbiamo creduto alla capacità del capitalismo di pacificare la società e il mondo della produzione. Tanto meno di questo capitalismo, da tempo incapace di coniugare espansione e sviluppo sociale. Del resto, c’erano state importanti avvisaglie. Gli scioperi spontanei, che si sono andati via via moltiplicando negli ultimi anni contro gli eccessi di arroganza del padronato. E poi la coraggiosa rottura della Fiom, l’estate scorsa. Ma è vero anche che il nuovo corso della Cgil ha segnato un salto di qualità, che deve essere valorizzato. È giusto affermare la necessità di «unire le forze» della sinistra «per contrattaccare» traggo queste parole dall’intervista di Bertinotti all’«Unità» contro il governo e il padronato; giusto sottolineare che in questa situazione sono «aumentate le possibilità di dialogo» nella sinistra politica italiana. Da queste premesse, se noi sapremo fare la nostra parte come gli altri la propria, possono derivare sviluppi straordinari, capaci di aprire una grande stagione di lotte e di mettere seriamente in difficoltà un governo che no nasconde il proposito di stravincere facendo strame non solo dei diritti materiali conquistati in decenni di lotte operaie, ma anche della legalità e delle garanzie costituzionali.
Due esempi il Medio Oriente e il nostro paese che ci dicono della complessità di situazioni in rapida evoluzione ma anche delle grandi opportunità che si aprono per la lotta anti-imperialista nel mondo e per la lotta di classe anticapitalista nelle società più sviluppate. Noi comunisti siamo quelli che non hanno mai smesso di pensare che il capitalismo non è la natura né un destino, ma un periodo della storia. E che lo sfruttamento del lavoro crea contraddizioni insopprimibili. Sta a noi valorizzarne tutte le potenzialità. Questo richiede, come dicevo, intelligenza e competenza. A questo proposito voglio riferirmi in chiusura a una delle quattro tesi emendative che ho sottoscritto con tanti altri compagni: quella sulla storia dei comunisti e del movimento operaio nel Novecento. C’è una semplice idea alla base di questo nostro emendamento. Che la storia bisogna conoscerla tutta, nel suo complesso, nella sua contraddittoria unità. Soprattutto la nostra storia, quella terribile ma grande del movimento operaio nei centocinquant’anni che ci separano dalla nascita dei primi partiti comunisti in Occidente. Questa storia merita serietà e rispetto. Il problema non è soltanto giudicare, il che è pure indispensabile. E non è certo in discussione l’esigenza che questo giudizio sia severo senza reticenze, ma anche senza sommarie liquidazioni. Il problema fondamentale è un altro: è capire. Capire per accumulare esperienza e conoscenza. Gramsci diceva che i rivoluzionari debbono sapere tutto. Perché? Perché se vuoi incidere sulla realtà e sui suoi mutamenti devi conoscerla sino in fondo: conoscere le possibilità concrete che la realtà reca in grembo e, per questo, le cause di tutto ciò che avviene. Si è detto: questa vostra attenzione alla storia tradisce un atteggiamento continuista, una sottovalutazione delle cesure storiche. No, compagni, è proprio il contrario. È proprio perché sappiamo che il mondo cambia in continuazione che avvertiamo il bisogno di conoscere tutto quel che ha via via determinato le sue trasformazioni. Per non trovarci impreparati e per riuscire a prevedere, nella misura del possibile, quanto avverrà. Questo un partito comunista deve sapere fare, se vuole incidere sulla realtà e non solo assecondare e tanto meno subire i suoi mutamenti.