Intercettazioni e guerra in Iraq, Bush tira dritto

Ormai questa del parlare, parlare, parlare, sembra essere diventata «la» tattica di George Bush. Al tempo di Katrina, per farsi perdonare il suo iniziale disinteresse cominciò a recarsi a New Orleans un giorno sì e l’altro pure, con i suoi poveri aiutanti che dovevano farsi in quattro per trovare ogni volta la «buona ragione» del viaggio. Ora, di fronte ai ripetuti schiaffi subiti nell’ultimo periodo (l’incriminazione del braccio destro del suo vice Dick Cheney; la risoluzione sul no alla tortura che prima lui ha ostinatamente avversato e poi ha dovuto accettare con un patetico tentativo di fare buon viso a cattivo gioco; la bocciatura della «sua» legge per antonomasia, il Patriot Act, e da ultimo, soprattutto, il furore sollevato dalle intercettazioni telefoniche compiute «su cittadini americani in territorio americano» senza chiedere l’autorizzazione del tribunale) la sua risposta è la stessa: parlare, parlare, parlare. Alla base c’è la sua evidente convinzione di essere un «grande comunicatore» e che bastino i suoi discorsi e soprattutto le sue apparizioni in tv, a prescindere dai contenuti, a sistemare le cose. Ma non ha funzionato con Katrina e non ci sono segni che possa funzionare ora. Fra il weekend e ieri la faccia di Bush è stata sugli schermi più delle previsioni del tempo – i momenti tradizionalmente più «forti» della giornata televisiva americana – e almeno nel caso di domenica sera con un’apparizione che più solenne non si poteva: nientemeno che la diretta in prime time dall’Ufficio Ovale della Casa Bianca per fare il punto sull’Iraq. Tutti si aspettavano grandi novità, un po’ perché l’ultima volta che ciò era avvenuto era stato per annunciare che l’invasione dell’Iraq era cominciata e un po’ perché c’erano voci che stavolta ci poteva essere perfino l’annuncio, se non del ritiro delle truppe perlomeno il suo inizio.

Niente di tutto questo. L’unica differenza tra gli altri discorsi e quello di domenica è stata qualche concessione al fatto che le cose in Iraq «sono state più difficili di quanto ci aspettavamo», che «la violenza non è destinata a finire con le elezioni appena tenute» e che «altri sacrifici ci aspettano». Subito dopo è scattato il meccanismo propagandistico con vari esponenti repubblicani pronti a lodare Bush per la sua «schiettezza», per il suo «realismo» e per «non avere nascosto i problemi». Ma di fatto l’unico suo «merito» è stato di dire sull’Iraq un po’ delle cose che le persone «informate dei fatti» e quelle di buon senso sono andate ripetendo da almeno due anni. E quanto al ritiro, prima Bush ha ripetuto la tiritera che esso avverrà quando «gli iracheni saranno pronti a difendere se stessi», non a «una data artificiale decisa a Washington» e poi ha adombrato una possibile riduzione delle forze americane in Iraq verso la fine del 2006, cioè in tempo per il voto di mid term, che poi è ciò che i repubblicani gli chiedono per avere qualcosa da «vendere» ai loro elettori. Più «data artificiale decisa a Washington» di così… Non ha minimamente accennato, Bush, al problema delle intercettazioni telefoniche ed elettroniche, ma di questo ha parlato ieri, in una conferenza decisa all’improvviso che ha finito per rendere ancora più scomposta la sua reazione. Dopo la scoop (compiuto con un anno di ritardo) del New York times, Bush aveva detto che non era vero nulla. Poi, rendendosi conto che ciò era insostenibile, ha detto che sì, le intercettazioni ci sono ma servono a «difendere l’America» e sono «perfettamente legali», senza accennare a nessuna legge che lo consenta. Poi, di fronte alla commissione Giustizia del Senato che ha deciso di tenere degli hearing perché la Casa Bianca vada a spiegare su cosa poggia quella «legalità», Bush ha detto appunto nella conferenza stampa di ieri che la legalità sta nell’articolo 2 della Cosituzione, cioè l’obbligo per lui di difendere l’America. Può bastare? Non pare proprio. Fra i senatori dei due partiti è tutto un coro di «le leggi si rispettano anche quando c’è la guerra», «George Bush è un presidente, non un re», «ci vogliono indicazioni più specifiche» e comincia a spuntare perfino il nome di Richard Nixon, cacciato per essere andato oltre i suoi poteri.

In compenso Bush ha avuto una «vittoria» su una faccenda un tempo suo cavallo di battaglia e ora quasi dimenticata (ma non da chi conta di guadagnarci sopra): le trivellazioni in cerca di petrolio nel paradiso naturale dell’Alaska. Per ottenere il «sì» della Camera si è approfittato del fatto che era notte ed era l’ultimo momento utile prima della chiusura natalizia. I deputati, con gli occhi gonfi dal sonno, sono stati chiamati ad approvare una di quelle leggi omnibus che legano in modo inseparabile misure di diversissima natura. Dire no alle trivellazioni significava anche dire no ai 29 miliardi di dollari destinati alle zone colpite dagli uragani, ai quasi 4 miliardi per far fronte al possibile espandersi dell’influenza aviaria e gli 8 miliardi necessari a far fronte alle «spese correnti» del governo federale. In sostanza, un ricatto, che il deputato democratico Edward Markey ha sintetizzato così: «Una misura da bocciare è stata associata a una misura che doveva passare, affinché i repubblicani potessero fare un grosso regalo natalizio alle compagnie petrolifere».