Ci sono i segretari di Stato repubblicani, Colin Powell prima e Condoleezza Rice poi, saliti ai vertici del Governo. Ci sono i volti di una nuova generazione di influenti parlamentari democratici, dal senatore Barak Obama al deputato Jesse Jackson junior. E ci sono gli uomini e le donne d’affari e di successo quali Oprah Winfrey, la regina dei talk show televisivi con un impero stimato in 1,3 miliardi di dollari e buono per il 215esimo posto nella classifica dei 400 americani più ricchi pubblicata dalla rivista Forbes.
I progressi della comunità afroamericana e dei suoi esponenti di spicco, dai tempi di Martin Luther King, sono innegabili. Ma altrettanto innegabili sono i sintomi di continuo malessere e strisciante crisi, che periodicamente minacciano di infiammare i ghetti delle metropoli degli Stati Uniti. E che, a quasi 40 anni del sogno di emancipazione e integrazione del grande leader del movimento per i diritti civili, fanno del colore della pelle forse la barriera più resistente che ancora divide la società multietnica americana. Le ricette appaiono oggi sfuggenti come non mai: per combattere l’emarginazipne afroamericana si sono susseguiti, con alterne fortune e tra mille polemiche, programmi di promozione sociale e strategie meno generose ufficialmente volte a stimolare l’autosufficienza. Con un’unica certezza: nel 21esimo secolo la questione razziale, eredità della schiavitù, accompagnerà un’altra generazione di americani.
Le tensioni sono tornate a emergere con prepotenza nella tragedia di New Orleans: città tra le più degradate del Paese e con una delle maggiori concentrazioni di popolazione e cultura afroamericana devastata dagli uragani. Il fallimento della prevenzione e dei soccorsi ha rilanciato gli
spettri della discriminazione. E le distanze che restano da percorrere per la società statunitense vanno ben oltre il caso di New Orleans: la comunità afroamericana rappresenta il 12,2% della popolazione, ma forse solo il 7% della sua classe dirigente nel mondo del business. Gli afroamericani sono piuttosto in testa a ben altre classifiche: quelle sulla povertà circa il 20% (il 30% tra i più giovani) contro il 10% dei bianchi – come quelle sui disoccupati, con 1’8,9% rispetto al 4,7% del generale tasso dei senza lavoro nel gennaio del 2006. Sono sovrarappresentati nei bracci della morte delle prigioni, con il 41,7% dei condannati. E sottorappresentati nell’istruzione, con solo un decimo degli afroamericani oltre i 25 anni di età che si è laureato contro ,un quarto dei bianchi.
E lo storico del sistema scolastico Jonathan Kozol a lanciare un grido d’allarme nel suo ultimo libro «La vergogna del Paese». Dopo un viaggio nelle scuole di undici stati, Kozol denuncia che i figli dei ceti poveri sono prigionieri di istituti decrepiti e inadeguati a competere nell’economia globale. Di più: sono di nuovo segregati di fatto se non di diritto. Proprio l’integrazione nelle scuole e nei servizi pubblici era diventato il grido di battaglia del movimento dei diritti civili negli anni di Martin Luther King. Nell’ultimo decennio, risuona adesso il j’accuse di Kozol, la proporzione di studenti afroamericani in scuole a maggioranza bianche è invece tornata a livelli pre-1968. Questo mentre in molte città americane restano in vita anche frontiere ben visibili tra i quartieri “bianchi” e quelli “neri” a cominciare da Atlanta, la città di King.
Il rebus dei rapporti razziali è passato attraverso ripetuti tentativi di soluzione. Alla stagione dei programmi di promozione delle minoranze si sono sommati tentativi di contare sulle proprie forze da parte della comunità afroamericana. A Washington le strategie liberal più egualitarie hanno lasciato spazio a iniziative più conservatrici sul ruolo federale. Sullo sfondo, ancora e sempre, quella barriera mai del tutto superata che passa per il colore delle pelle.