Iniziative per il riconoscimento alla memoria delle vittime delle stragi nazifasciste

(Iniziative per il riconoscimento alla memoria delle vittime delle stragi e delle persecuzioni nazifasciste – n. 2-00231)

PRESIDENTE. L’onorevole Burgio ha facoltà di illustrare la sua interpellanza n. 2-00231 (vedi l’allegato A – Interpellanze urgenti sezione 3).

ALBERTO BURGIO. Signor Presidente, la mia interpellanza riguarda, da una parte, i fatti di Cefalonia, acquisiti alla memoria storica, e, dall’altra, una vicenda giudiziaria assolutamente recente, anzi ancora in corso, e che nei prossimi giorni conoscerà un atto di grande rilevanza. Vorrei riepilogare molto schematicamente i fatti.
Come tutti noi sappiamo, nel settembre del 1943 si è verificata nelle isole ioniche, nell’isola greca di Cefalonia, la strage di maggiori proporzioni a danno delle forze militari italiane impegnate dopo l’8 settembre 1943 al fianco di quelle anglo-americane. Si tratta della strage di maggiori proporzioni e contestualmente del primo atto della resistenza italiana, come il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, ebbe a definire il 1o marzo 2001 in occasione della commemorazione dei caduti italiani della divisione Acqui, a seguito della decisione del comandante, generale Gandin, di non consegnare le armi ai tedeschi. Inoltre, si tratta anche del primo massacro perpetrato dalle forze nazifasciste nei confronti dei nostri militari.
Cosa avvenne a Cefalonia? A Cefalonia, l’8 settembre venne presa una decisione dalle forze militari italiane, peraltro assunta nel modo più partecipato. Gli storici ricordano che il generale Gandin decise di chiedere, in una sorta di referendum, ai militari di truppa, ai sottufficiali e agli ufficiali italiani cosa intendessero fare. Allora, essi decisero di resistere ai tedeschi e in uno scontro militare vennero uccisi e caddero in battaglia circa 1.200 militari italiani. La preponderanza delle forze di terra e di cielo tedesche indussero in un secondo momento il generale Gandin a decidere la resa. Essa fu comunicata al nemico il 22 settembre. In quella data scattò una caccia all’uomo nei confronti dei militari italiani, che vennero sistematicamente catturati, fatti prigionieri ed uccisi, in violazione del diritto internazionale di guerra e di ogni convenzione militare. La storia parla di 155 ufficiali e di circa 4.500 soldati italiani massacrati in tal modo. Addirittura, nel processo di Norimberga sulla strage di Cefalonia, il generale statunitense, Telford Taylor, che partecipava al collegio di accusa, dichiarò che gli italiani erano soldati regolari che avrebbero meritato il rispetto, la considerazione ed il trattamento cavalleresco, mentre invece avevano subito ritorsioni che violavano tutte queste norme e tutti questi princìpi. Questo è quello che riguarda la vicenda storica, a noi tutti nota.
Senonché qualche mese fa, nel luglio 2006, si è aperto un nuovo capitolo, che stavolta ha anche un contesto giudiziario. Mi riferisco al processo intentato nei confronti dell’allora sottotenente dell’esercito tedesco, Otmar Muehlhauser, che fu tra i protagonisti dell’eccidio in qualità di comandante del plotone di esecuzione che passò per le armi numerosi ufficiali italiani della divisione Acqui. Nel processo, Muehlhauser, se non è stato del tutto assolto, ha comunque beneficiato della decisione del procuratore generale Stern, di Monaco, che ha optato per una prospettiva che rende semplicemente impossibile qualsiasi giudizio di condanna. Infatti, il giudice tedesco ha ritenuto Muehlhauser colpevole di omicidio, non ignorando le sua rilevanza né le sue decisioni, ma ha consentito la prescrizione del reato, negando che le sue azioni fossero determinate da «vili motivi» (questo è il punto giuridico) per il semplice fatto che ha sposato interamente l’ottica dell’imputato. Il giudice tedesco ha detto che allora Muehlhauser riteneva gli italiani disertori e traditori. Siccome quello che conta è il punto di vista soggettivo dell’imputato, non si può dire che invece erano prigionieri di guerra. Dunque, visto che non erano prigionieri di guerra, non sussistono i «vili motivi». Tutti capiamo che secondo questo punto di vista, per il quale un giudice assume l’ottica dell’imputato, non vi saranno mai «vili motivi». Infatti, non credo che incontreremo facilmente un soggetto che agisca sulla basi di motivi da lui stesso ritenuti vili.
Concludendo l’illustrazione della nostra interpellanza, vorrei aggiungere un’ulteriore considerazione su cui credo che valga la pena riflettere un momento. La giustizia tedesca non ha mai, fino ad oggi, condannato alcun militare della Wehrmacht o delle SS resosi responsabile di assassinio, massacro e violenza nei confronti di militari italiani. Non vi è mai stata una condanna, anzi, ogni qualvolta un’autorità giudiziaria tedesca abbia, per incidenza nel contesto di un procedimento penale, emesso una sentenza in tal senso, la Corte suprema ha sistematicamente provveduto a prescrivere o ad assolvere. Ricordo il caso emblematico della condanna in contumacia all’ergastolo di Siegfrid Engel, responsabile di una quantità di stragi (strage della Benedicta, del Passo del Turchino, di Portofino e di Cravasco), dove la Corte suprema ha provveduto ad annullare la condanna che in primo grado la corte penale di Amburgo aveva emesso.
Visto che dopodomani la corte penale di Monaco, nella persona (ahinoi) dello stesso procuratore Stern, sarà chiamata a giudicare sul ricorso che la figlia di una delle vittime di Cefalonia ha presentato contro la decisione di prescrivere il reato al signor Muehlhauser, in questo contesto chiediamo al Governo di considerare tutta la gravità della situazione per una ragione molto semplice.
Noi riteniamo che questa non sia e non possa essere più considerata una vicenda giudiziaria normale e, dunque, di ordine privato. Riteniamo che siano in causa, oltre alla memoria ed alla verità storica, anche la dignità e l’onore di combattenti italiani che sono stati vittime di condotte inammissibili e che meritano un riconoscimento per ciò che è effettivamente avvenuto.
Siamo stati raggiunti da alcune notizie, in questi ultimi frangenti, circa il fatto che il procuratore Stern si sarebbe rammaricato di aver usato le parole «traditori» e «disertori» e si sarebbe dichiarato turbato e scosso. Da ultimo, persino il ministro della giustizia della Baviera, la signora Beate Merck, avrebbe definito «terrificante e disonorevole» il comportamento dei militari tedeschi.
Il problema, tuttavia, non è semplicemente questo. Non si tratta, a nostro modo di vedere, di giudicare un comportamento e nemmeno, signor Presidente – vorrei chiarirlo, perché ci è stato contestato – di interferire con la giustizia tedesca, con la magistratura di un altro paese che ha la sua autonomia e la sua indipendenza. Ciò ci è assolutamente noto. Ciò che vorremmo, e chiediamo al Governo se non lo ritenga opportuno, è che vengano fatti passi ufficiali perché si determini una presa di posizione istituzionale, da parte del nostro paese, affinché la Germania, in tutte le sue articolazioni istituzionali, riconosca la verità storica e dia alla verità storica, in questo caso quella dei massacri perpetrati dai militari nazisti, la dovuta diffusione, la dovuta visibilità e ciò suoni come esplicito riconoscimento e scuse nei confronti dei nostri militari.

PRESIDENTE. Il sottosegretario di Stato per gli affari esteri, Vittorio Craxi, ha facoltà di rispondere.

VITTORIO CRAXI, Sottosegretario di Stato per gli affari esteri. Onorevole Burgio, la ringrazio per questa interpellanza. Spero, nella mia risposta, di andare incontro all’obiettivo della medesima.
Naturalmente, il Governo concorda pienamente con lei sull’inaccettabilità delle motivazioni dell’ordinanza con cui la procura ha archiviato il caso dell’ex ufficiale tedesco. Noi, appena informati di tale ordinanza di archiviazione, tramite il nostro ambasciatore a Berlino, abbiamo espresso immediatamente al ministro federale della giustizia, Brigitte Zypries, ed al ministro della giustizia della Baviera, Merck, la nostra indignazione e la nostra deplorazione per le tesi sostenute dal procuratore di Monaco, ribadendo l’importanza di ristabilire la verità storica e giuridica e richiamando anche, al riguardo, la condanna erogata dal Tribunale di Norimberga contro il generale Hubert Lanz, che fu il comandante delle truppe tedesche a Cefalonia. Abbiamo altresì tenuto a sottolineare alle autorità tedesche che quella di Cefalonia è una pagina gloriosa della storia italiana, rammentando il numero dei militari italiani caduti sotto il fuoco tedesco per tenere fede al loro giuramento di fedeltà alle istituzioni nazionali italiane. Ciò è stato ribadito in successivi incontri con l’ambasciatore di Germania a Roma e con le autorità tedesche a Berlino.
Nella lettera, che peraltro lei ha citato, spedita dal ministro della giustizia della Baviera, la stessa ha detto testualmente che il massacro compiuto contro i soldati italiani a Cefalonia ha infranto in maniera terrificante e disonorevole le regole del diritto internazionale di guerra e, quindi, che è altrettanto fuori discussione che non vi fosse alcuna giustificazione per quelle azioni.
Pertanto, con l’archiviazione del procedimento la procura non ha voluto assolutamente mettere in dubbio quanto affermato al momento della condanna del generale Lanz nell’ambito del processo di Norimberga sulle fucilazioni di Cefalonia. A questa inequivocabile presa di posizione sull’aspetto politico e storico della vicenda il ministro ha fatto seguire un’articolata ricostruzione tecnico-giuridica del dispositivo della sentenza, che riassumerò soltanto in parte.
Il primo principio evocato dal ministro Merck è che nell’ordinanza della procura di Monaco non vi fosse alcun intento assolutorio ed è fuori di dubbio che lo stesso pubblico ministero ha tenuto a precisare per iscritto che al comportamento dell’indagato non può essere riservata alcuna comprensione.
Il secondo principio è che il termine «traditore» era virgolettato e non si riferiva, infatti, all’operato delle Forze armate italiane, ma alla percezione che, all’epoca, il sottotenente accusato aveva degli avvenimenti. Nelle parole del ministro, l’indagato avrebbe dovuto comprendere che i militari italiani rimanevano fedeli alla propria patria, ma, nella sua ottica soggettiva, egli percepiva quei soldati, che in precedenza erano stati compagni d’armi, come nemici che lottavano contro di lui.
Il terzo principio è che tale stessa percezione era sicuramente sbagliata, inaccettabile, sia dal punto di vista giuridico sia dal punto di vista morale. Tuttavia, il fatto che l’accusato abbia agito, a suo tempo, per obbedire ad ordini ricevuti e sulla base di una comprensione distorta della realtà, fa sì che nei suoi confronti non scattino oggi le aggravanti previste dal codice penale tedesco per l’omicidio doloso aggravato per vili ragioni. Non è, quindi, sul piano strettamente tecnico, erroneo ammettere che i reati contestati all’imputato possano cadere in prescrizione.
Riteniamo, ai fini di una valutazione serena della lettera del ministro della giustizia, che le argomentazioni giuridiche a sostegno della decisione di archiviazione vadano tenute distinte dalle considerazioni di carattere storico e morale sulla vicenda di Cefalonia e sul comportamento dei nostri militari, e che sul piano giuridico risulta certamente insoddisfacente la giustificazione ricercata nelle interpretazioni giurisprudenziali invocate nel caso Mühlhauser.
Dal punto di vista del giudizio sostanziale, la lettera, tuttavia, rappresenta una chiara presa di distanza tanto del ministro quanto dello stesso pubblico ministero rispetto a quella che appariva come un’offesa della verità storica, della dignità delle vittime della tragedia di Cefalonia e delle intere Forze armate italiane. Sotto questo profilo, i nostri passi svolti nei confronti delle autorità tedesche sono riusciti, crediamo, nell’intento di ottenere da parte delle medesime una precisazione inequivocabile sul comportamento dei nostri militari ed i propositi del ministro Merck e del procuratore generale non avrebbero potuto riconoscerne più chiaramente la fedeltà alla patria ed alle istituzioni nazionali.
Così abbiamo ritenuto di comportarci e così credo, onorevole Burgio, questa vicenda abbia visto il Governo impegnato nel tentare di non compromettere sul piano storico e sul piano morale l’azione dei nostri militari e, soprattutto, nel fare in modo che le autorità tedesche riconoscessero l’errore di fondo, sul piano storico e morale, che stavano commettendo.

PRESIDENTE. La deputata Cardano, cofirmataria dell’interpellanza, ha facoltà di replicare.

ANNA MARIA CARDANO. Signor Presidente, ringrazio il sottosegretario per la risposta; tuttavia la nostra posizione è soltanto di parziale soddisfazione per quanto ascoltato in quest’aula. È evidente, infatti, che un procedimento ancora in corso, perché non sono completate le fasi di giudizio, richiede, a nostro parere, una presa di posizione più forte da parte dello Stato italiano. Se è vero che uno Stato non può costituirsi parte civile, siamo tuttavia convinti che singole persone, in rappresentanza delle istituzioni di un paese, possano farlo e che questo sia forse il caso, non certo per aprire una crisi diplomatica con la Repubblica federale tedesca, per il valore emblematico e storico di questa vicenda, di non lasciarla esaurire soltanto con queste, pur apprezzabili, azioni svolte finora.
Riteniamo, infatti, che al momento tutta la questione si sia comunque risolta in un fatto rimasto privato, perché anche le cose da lei citate, signor sottosegretario, non sono diventate di dominio pubblico. Quindi, al momento, è rimasto un fatto privato tra la signora De Negri, parte civile italiana e, appunto, il procuratore Stern, che ha espresso il giudizio.
A nostro parere, non può continuare ad essere così. L’opinione pubblica italiana deve venire a conoscenza al più presto anche di queste posizioni espresse in Germania dai rappresentanti istituzionali. D’altra parte, siamo a conoscenza che la Repubblica federale tedesca, in particolare il Parlamento tedesco, tra il 2002 e il 2004, ha varato alcune importanti leggi (una delle quali ha istituito la Fondazione memoria, responsabilità e futuro) che parlano proprio di riabilitazione dei disertori.
Ora, vedere utilizzato un linguaggio superato, dal punto di vista giuridico, dalle stesse leggi tedesche oggi non ci pare accettabile. Il linguaggio non è neutro e le parole che si leggono nella sentenza, come «prigionieri non normali», o «traditori» o «disertori», anche se virgolettate, non possono essere accettate.
Per questo motivo, pensiamo che una vicenda come questa possa essere significativa rispetto a come l’Europa intende porsi per il futuro (peraltro, la Fondazione tedesca è denominata memoria, responsabilità e futuro). Per il futuro l’Europa deve porsi sul piano dei diritti umani e della nozione di civiltà in modo più avanzato. Questa deve diventare una lezione che, in qualche modo, insegni che non è mai possibile la prescrizione di reati di questo tipo; quindi, una difesa dei diritti umani anche dei militari di allora.
Chiediamo una presa posizione, perché al momento sono in corso con la Germania le trattative per il risarcimento dei 650 mila prigionieri militari italiani. La loro sorte è stata tragica, poiché non essendo considerati allora prigionieri di guerra, non ebbero i benefici spettanti a questi ultimi. In seguito, non hanno ottenuto alcun risarcimento, perché neppure riconosciuti lavoratori coatti.
In tale contesto, chiediamo che le azioni proseguano in modo ancora più incisivo e, soprattutto, che ne sia data pubblicamente contezza.