Inflazione da petrolio

Cede la resistenza sul fronte dell’inflazione, nonostante i rialzi dei tassi di interesse già effettuati (e quelli per ora solo minacciati) dalla Banca centrale europea. Segno che l’alto livello dei pezzi energetici, ma soprattutto la durata nel tempo di questi aumenti, comincia a riversarsi sui prezzi di tutte le altre merci. I movimenti febbrili di questi giorni sui mercati, agitati ancora una volta da un salto di qualità nell’escalation della crisi mediorientale, costringono tutti a prendere atto che i prezzi di petrolio e gas non solo non «rientreranno nella normalità» a breve termine, ma tenderanno a crescere.
In Italia, dice la nota mensile dell’Istat, in giugno l’inflazione è cresciuta dello 0,1% su base mensile e del 2,3% su quella annuale. Peggio ancora è andata per l’indice Foi, centrato sui consumi di famiglie operaie e impiegatizie, che è cresciuto dello 0,2% in un solo mese. Colpa degli alimentari, principalmente, come ben sanno le donne che tutti i giorni fanno la spesa. Su base annuale, comunque, i consumi della più grande fascia di lavoratori cono stati pesantemente colpiti dagli aumenti delle spese per abitazione (+5,8%), trasporti (+4), bevande alcoliche e tabacchi (+5,2) e istruzione (+3).
Le prospettive, poi, sono ancora peggiori. Alla base di tutto c’è il prezzo del petrolio, naturalmente, che anche ieri ha galoppato impetuosamente sulle piazze di tutti i continenti. Superata abbondantemente la quota record dei 78 dollari al barile (78,40) per quanto le riguarda le partite con consegna ad agosto, anche se in chiusura il prezzo è tornato un po’ sotto la soglia «psicologica» appena violata. Ma quello del greggio è un mercato che «gioca» su scadenze anche più lontane nel tempo. E quindi per gli stock da consegnare a settembre (quantità fisiche, è bene ricordarlo, che in alcuni casi sono già ora in viaggio sulle petroliere) qualcuno ha pagato ben 79,45 dollari. A un nulla da quella «quota 80» che, a prezzi correnti, equivarrebbe a quanto si era arrivati a pagare nel primo «shock petrolifero», nel 1973. Solo che allora la fase acuta della crisi durò poche settimane, per rifluire nella «normalità» nel giro di pochi mesi. Oggi, invece, questa soglia sta per essere raggiunta dopo una costante, accelerata, marcia di avvicinamento: solo un anno e mezzo fa si stava intorno a quota 40. E sembrava tantissimo.
Nessuna previsione credibile parla di un possibile calo. Gli stessi petrolieri parlano al massimo di «stabilizzazione»; ma sono le stesse parole che stanno mandando in giro da almeno quattro anni, da quando, cioè, la corsa verso l’alto è iniziata. Sulle cause degli aumenti, stessa costanza. Ogni volta vengono chiamate in causa ragioni «contingenti», crisi locali, irrigidimenti diplomatici che coinvolgono questo o quello dei paesi produttori. E certo la guerra che sta muovendo Israele al Libano in queste ore è ben più grave di quasi tutti i micro-allarmi da un anno a questa parte. Eppure la reazione del prezzo è identica: sale un po’ (dal 3 al 5-6%), e da lì non torna più indietro.
La stanno perciò prendendo molto male le borse mondiali, a partire dalla principale, New York. «Il cielo sta cadendo su Wall Street», titolava sconsolata ieri sera la Cnn. In quel momento l’indice Dow Jones stava perdendo quasi l’1,2%. Ma era anche il terzo giorno consecutive di perdite altrettanto gravi (quasi -4%, in totale). Oltre ai timori per il prezzo del petrolio, infatti, hanno pesato i dati dell’economia reale, inferiori alle attese. Le vendite al dettaglio del mese di giugno sono diminuite dello 0,1%; poco, ma ci si attendeva un incremento. E la fiducia dei consumatori americani (il cosiddetto Indice del Michigan) ha fatto altrettanto. Per un paese il cui Pil è costituito per il 65% dai consumi, queste sono notizie gravi.
Sembrerà una notizia minore ma non lo è, in questo quadro: dopo 5 anni la Banca del Giappone ha posto fine alla politica degli interessi a livello zero, ritoccando i tassi e aumentandoli dello 0,25%. Vorrebbe essere il segnale di un ritorno a una più normale politica monetaria, che dà per superata la spirale deflazionistica nella quale si era avvitata la seconda economia al mondo. Una decisione, comunque, in aperta controtendenza rispetto al tono generale dei mercati mondiali di ieri.