Industria, sette giorni di ordinario declino

Ogni settimana si aprono vertenze che mettono in pericolo migliaia di posti di lavoro

In una settimana ci sono le vertenze che arrivano alla task force di Palazzo Chigi, ma non sono che la punta dell’iceberg. Ci sono le crisi denunciate dai sindacati, ma i sindacati non stanno dappertutto. Ci sono operai che salgono su una ciminiera fino
a quando non si accendono i riflettori sul dramma della disoccupazione. È una realtà che va oltre i tavoli di confronto anche locali, oltre le notizie di cronaca o i comunicati. Eppure anche fermando l’immagine solo sulle «segnalazioni», e solo dell’ultima settimana, il quadro è allarmante. È lo spaccato di un declino industriale annunciato e colpevolmente ignorato.
Nell’ultima settimana si è parlato della StMicroelectronics (Stm) di Catania, doveva esserci un incontro il 6 giugno, i rappresentanti della multinazionale lo hanno disertato. Il gioiello dell’Etna Valley, speranza e riscatto di un Sud che accelerava il passo, rischia il ridimensionamento. Sono 2300 i posti da tagliare extra-Asia a partire dal 2006. E siccome extra-Asia gli stabilimenti in Marocco, Francia e Italia, a Catania due conti se li sono fatti. C’è un problema di finanziamenti pubblici. C’era, nel 2001, il progetto M-6. Prevedeva la produzione di semiconduttori su fette silicio da 12 pollici. Il progetto era parzialmente co-finanziato dallo Stato, (socio di minoranza con un retaggio di azioni Finmeccanica), avrebbe tirato fuori 2,06 miliardi di euro, 500 milioni in credito di imposta. Credito che Tremonti ha cancellato. Risultato in Cina, a Wuxy City, sta nascendo un impianto per la produzione dei nuovi microchip.
In settimana ha preso consistenza anche l’ultima crisi, quella dell’Ibm, multinazionale dell’informatica, che vuole licenziare 510 dipendenti, quasi tutti concentrati a Segrate. L’altroieri nella sede della provincia di Udine si è invece tenuto un incontro sulla crisi dell’occhialeria. A mezzo raccomandata la Safilo ha infatti comunicato ai sindacati l’intenzione di chiudere gli stabilimenti di Ronchis e Coseano, in provincia di Udine e quello storico di Calalzo in territorio bellunese, dove l’azienda è nata nella seconda metà dell’Ottocento. Un secolo e mezzo dopo, 6300 dipendenti nel mondo, 3790 in Italia, si chiude. 497 i lavoratori a rischio di licenziamento. La stessa sorte pende sui 440 operai della Fiamm, stabilimento di Montecchio Maggiore, nel vicentino. Si producono avvisatori acustici, il bilancio è in attivo. Ma delocalizzare è meglio. Vuoi mettere Montecchio con la Cina, con la Repubblica Ceca? Gli operai picchettano gli stabilimenti, dai quali non esce neanche una vite.
Promettono battaglia anche i lavoratori del gruppo Barilla. Il Mulino di Termoli è stato venduto, ai lavoratori del centro ricerche Corial di Foggia sono arrivate le prime lettere di trasferimento a Parma, al bakery di Caserta i macchinari non si riparano più tanto la linea deve fermarsi, come allo stabilimento di Matera. Era ottobre quando l’azienda presentò il suo piano industriale, i sindacati lo rigettarono, ma i Barilla vanno avanti. Electrolux. Era la Zanussi, ora è un colosso svedese: sono in bilico 400 posti dei 9mila dipendenti in Italia, 250 nello stabilimento di Scandicci che ne occupa 650; altri 150 a Parabiago (Milano) dove si smetterà la produzione dei tagliaerbe, non più strategici. A Scandicci sono out i piccoli frigoriferi, poco remunerativi. Anche l’Electrolux guarda alla Cina o all’Europa orientale.
E pensare che dieci anni fa Rifkin teorizzava la fine del lavoro. Sarebbero state le macchine a sostituirlo. Invece sta accadendo che al lavoro si sostituisce il lavoro, ma senza diritti e tutele. Se è vero che schiere di bambini cinesi, con orari e regimi da caserma e con le mani deformate dalla colla fanno scarpe per marchi di grido che costano 1,50 euro al paio e che sul mercato occidentale vengono vendute a 150.
All’Olivetti di Agliè non fanno scarpe, ma alcune produzioni verranno comunque spostate in Medio Oriente: qui resta la cassa integrazione per 210 addetti su 410. La multinazionale americana Whirlpool conta in Italia 4 siti produttivi e 6mila dipendenti, ha avviato le procedure di mobilità per 783 lavoratori di Varese. A colpi di manifestazioni, scioperi e tavoli, in questa settimana il bollettino delle crisi ha citato anche la Ferrania, la Natuzzi, la Marzotto, la Cerruti, la Pagnossin, la Coats Cucirini, la Colgate Palmolive, la Geodis-Zustambrosetti. Infine l’Alcoa, che a Ferrara produce ruote e cerchioni in alluminio: gli ordini si esauriranno il 15 luglio.