Lo chiamano «l’anti Nato», «l’Opec con la bomba», il «rifugio dei dittatori», e ogni definizione non è rassicurante. Si parla della Shanghai Cooperation Organization (Sco), club che annovera fra i suoi membri ordinari Cina, Russia, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan e Uzbekistan e che dall’anno scorso ha ammesso fra gli osservatori India, Mongolia, Pakistan e, fra lo scandalo mondiale, l’Iran. Tutti si sono riuniti ieri a Shanghai, dove l’organizzazione fu formalizzata nel giugno del 2001, dove è stato steso un lungo tappeto rosso con tanti onori (e 60mila poliziotti per la sicurezza) al presidente Ahmadinejad, rifiutato persino come supporter della squadra iraniana ai mondiali di Germania.
Tutti si sono indignati per la presenza del presidente canaglia alla riunione, perdendo di vista l’insieme dell’evento che, definito dalla Cina il suo maggiore appuntamento internazionale dell’anno, è parte essenziale del complicato gioco diplomatico che Pechino e Mosca vanno tessendo intorno alla fallimentare politica estera americana nell’area e all’acutizzarsi dei problemi di approvvigionamento energetico globali. Riguardo ai quali la Cina si presenta come uno dei clienti più assetati e la Russia come uno dei maggiori fornitori. Di fatto la Sco copre la più grande superficie terrestre del pianeta, i paesi riuniti ieri a Shanghai rappresentano metà della popolazione mondiale e un quarto delle forniture mondiali di petrolio. Ed è innegabile che la sua importanza è cresciuta nel tempo. Tanto che lo scorso anno gli Usa avevano chiesto almeno uno strapuntino da osservatore, che si sono visti rifiutare. Di qui le accuse di inimicizia rivolte all’organizzazione, vista come uno strumento per contrastare l’influenza americana in Asia centrale. Nata nel 1996 come luogo per dirimere le dispute di frontiera nell’intrico dell’Asia centrale, l’organizzazione, che i suoi membri non amano definire «alleanza» ma piuttosto «partnership», ha deciso di fare un salto di qualità cinque anni fa. Quando le Torri gemelle di New York svettavano ancora, i sei decisero che era venuto il momento di combattere insieme i «tre mali» che li minacciavano: terrorismo, separatismo, estremismo religioso. Ognuno aveva la sua spina nel fianco, i Ceceni per laRussia, gli uiguri del Xinjiang per la Cina, gli oppositori più o meno islamici per tutti gli altri che non stavano a sottilizzare. L’11 settembre e la guerra globale al terrore «regolarizzò» le posizioni di ciascuno degli stati membri, non più additati come repressori. La Sco continuò così a operare e a riunirsi, nell’indifferenza generale. Che fu rotta in modo clamoroso lo scorso anno quando i sei membri della Cooperazione di Shanghai fecero presente agli Usa che era venuto il momento di levare le basi installate in Asia centrale dopo l’11 settembre. E l’Uzbekistan passò all’azione due settimane, sfrattando gli Stati uniti. Di sicuro, negli ultimi sei anni la Sco ha accresciuto i propri scopi. Pur non definendosi un’alleanza militare, organizza esercitazioni comuni antiterrorismo (e nella capitale uzbeka, Tashkent, la voce popolare dà per scontato che quattro anni fa soldati cinesi hanno combattutto nella valle di Fergana contro le forze islamiche che stavano per avere la meglio sulle truppe uzbeke). Nella Shanghai Cooperation anche la dimensione economica sta diventando sempre più importante come dicono le cifre circolate ieri: contratti firmati per due miliardi di dollari, oltre 900 milioni di dollari di crediti all’export garantiti dalla Cina ai paesi dell’Asia centrale, 500 milioni di dollari concessi da Putin ai medesimi. L’impressione è un po’ da mercato di anime, che prefigura una sorta di rivalità tra i due pesi massimi. Ma per ora quel che conta, attira, e preoccupa di più chi ne sta fuori, è lo «spirito di Shanghai» che incarna, per dirla con le parole di Pechino «un nuovo concetto di sicurezza che chiede fiducia reciproca e sicurezza comune, eguaglianza e consenso, nessuna ostilità contro un paese terzo o una regione». Con queste premesse, l’Iran ha chiesto di diventare membro effettivo, ma per evitare attriti (il 15 luglio Putin ospita il suo primo G8 a San Pietroburgo) gli è stato detto di no. Per ora.