Indonesia: tentativi oscuri di destabilizzazione

Una chiave di lettura della crisi indonesiana più convincente di quelle a cui ricorre, ormai da mesi, gran parte della stampa internazionale, è stata offerta dal settimanale londinese The Economist in una breve nota, sotto il titolo “Libri che bruciano. Che cosa c’è dietro l’ascesa dell’anticomunismo in Indonesia?” La regia di gran parte dei fatti eversivi e della campagna di discredito nei confronti del presidente, in atto nel grande paese asiatico – questa la sostanza delle rivelazioni –, è nelle mani di un blocco di trenta partiti e organizzazioni musulmane e di destra, denominato “Alleanza anticomunista” (Aka), sorto in modo “non spontaneo” e formalizzato nello scorso aprile. Presidente dell’Aka, cui risale anche l’iniziativa di assalti alle librerie, seguiti dai classici roghi di libri di hitleriana memoria, e di aggressioni contro esponenti e sedi di gruppi di sinistra, a Giakarta e altrove, è Enrico Guterres, personaggio del deposto regime Suharto e organizzatore del genocidio a Timor est, ma ne fanno parte anche elementi del Golkar, l’ex-carrozzone dirigente della dittatura, estremisti musulmani e dello stesso Partito democratico di lotta, l’attuale partito di maggioranza che fa capo a Megawati Sukarnoputri, figlia del primo presidente indonesiano, Sukarno.
Lo scoop dell’Economist rende esplicita una linea di programmatica diffidenza, coerentemente seguita. Già nello scorso luglio, in un inserto sulla situazione indonesiana, il settimanale britannico aveva stabilito un’opportuna distinzione nella mole degli addebiti rivolti a Wahid: innanzi tutto, il giudizio su di lui può e deve essere critico, non sono mancati errori, ma non si può dimenticare che quest’uomo avanti negli anni, quasi cieco, sofferente di cuore, doveva cimentarsi con “un lavoro da giganti”; in secondo luo go, è vero che la situazione economica peggiora, ma altra cosa è dedurne che il capo dello Stato sareb be, in contrasto con la sua figura ascetica e con la sua vocazione mistica, di umiltà, un intrallazzatore e un gaudente. Lo scetticismo diventava denuncia nella copertina dell’inserto, che mostrava Wahid, “incerto pompiere”, nell’atto di brandire contro le fiamme un tubo a corto d’acqua, per la buona ragione che i suoi massimi collaboratori – si riconoscono Megawati, vicepresidente, Amien Rais, presidente dell’ Assemblea, Akbar Tandjung, leader del Golkar, e un militare – lo schiacciano con i piedi o, addirittura, vi sono seduti sopra. Tuttavia, a quella data, il giornale non escludeva la possibilità che Wahid evitasse l’impeachment e ottenesse “una seconda chance”. Ora la situazione si aggrava.
Nel valutare le prospettive, molti commentatori interrogano il passato e prestano nuova attenzione a un episodio importante, mai chiarito. La transizione dal regime di Suharto alla democrazia era stata gestita, come si ricorderà, da un uomo del regime, il presidente provvisorio B. J. Habibie, e nelle elezioni del giugno 1999 il ruolo di protagonisti spettò agli stessi partiti che avevano interpretato, rispettivamente, i ruoli di partito di gover no e di opposizione tollerata. Altri quarantacinque partiti erano stati autorizzati, ma il loro ruolo fu quel lo di semplici comparse.
“Spontaneità” e “macchinazione”, per usare i termini dell’ Economist, avevano pesato, insomma, nel risultato e la carica di rinnovamento insita nel movimento che aveva cacciato il dittatore era rientrata. Ma – ed è questo l’episodio cui ci riferia mo – tra il voto e la proclamazione del risultato trascorsero lunghe e tese settimane, durante le quali è lecito supporre che la “spontaneità” abbia subito un ulteriore arretramento a vantaggio della “macchinazione”. Tra le forze, interne ed esterne, interessate a una “verifica” e a un patteggiamento, c’era lo stesso Habibie, che non nascondeva il proposito di succedere a se stesso.
Neppure le istituzioni erano cambiate. In seno all’Assemblea chiamata a eleggere il presidente, i membri del nuovo parlamento dividevano il loro potere decisionale con una nutrita schiera di membri nominati. L’aritmetica del voto di giugno doveva confrontarsi con l’aritmetica del potere. La prima avrebbe dovuto favorire Megawati e il suo Partito democratico di lotta (Pdi-p), partito di maggioranza relativa, forte del 33,7 percento dei voti popolari e di 153 seggi. La seconda apriva la via a un esito diverso, ma non a quello sperato da Habibie, dal momento che il suo partito, il Golkar, era uscito dalle urne in seconda posizione ma fortemente ridimensionato: il 22,4 per cento e120 seggi. La scelta di Wahid, leader del Pkb (Partito del risveglio nazionale, 12,6 per cento, 51 seggi) suscitò una violenta risposta di strada delle milizie di Megawati e scontentò gli altri partiti minori nel gruppo di testa: il Ppp ( Partito unito dello sviluppo islamico,10,7 per cento e 58 seggi) di Amien Rais, e il Pan (Partito del mandato nazionale, 7,11 per cento e 34 seggi). In extremis, a votazione conclusa, Wahid recuperò una precaria intesa con Megawati, offrendole la vicepresidenza.
Presidente di minoranza, non gli restava che formare un governo di coalizione, che si affidasse al “fare” e che fosse il meno possibile dipendente dalle risse di partito. È, a ben guardare, e fatte le dovute differenze, la via che aveva scelto il “padre” dell’indipendenza indonesiana, Sukarno, quando si era trovato di fronte al compito di governare un paese con una doppia linea di frattura: quella tra partiti laici e partiti musulmani e quella tra forze di progresso e forze reazionarie. La sua alleanza con i comunisti era stata la risposta all’involuzione reazionaria del Nahdatul ulama, l’organizzazione islamica fondata dal nonno e diretta poi dal padre di Wahid, e alla deriva separatista del Masjumi, l’altro grande partito musulmano. Oggi il Masjumi non esiste più, divorato dalla guerra civile, e il Pc, la sola forza che si muovesse su una via laica e progressista, è stato barbaramente soppresso dai militari asserviti alla Cia e dagli islamici strumentalizzati dai militari in una stagione di orrore.
Forse la vera “colpa” di Wahid è quella di aver compreso quanto male abbia fatto al paese quell’operazione criminale, pianificata a tavolino da menti diaboliche e tradottasi in un trentennio di dittatura, di misfatti e di saccheggio della nazione, e di aver cercato di disfare quell’ordito, sollecitando per primo il suo partito a un lavacro delle coscienze e facendo appello a un superamento dei pregiudizi e dell’odio, per “una nuova armonia”.
Forse la sua stessa situazione di debolezza è stata voluta dagli altri leaders politici indonesiani, consapevoli che la sua diversità può rappresentare un ostacolo sul loro cammino. E questo vale per i laici – Megawati, il Golkar, una corrente delle forze armate che la figlia di Sukarno da tempo coltiva – come per Amien Rais, da tempo impegnati nell’elaborazione di alleanze alternative.
Il ritorno sulla scena, con una nuova aggressività, dell’anticomunismo è ovviamente un fatto preoccupante, tanto più preoccupante in quanto non si esaurisce in quello che potremmo chiamare “il richiamo della foresta” (non a caso, nota l’autore dell’articolo che annuncia la fondazione dell’Aka, i nuovi bruti accusano una penuria di libri marxisti da bruciare – tutti sono stati già brucia ti – e finiscono per dare alle fiamme quel che capita). C’è il fattore “non spontaneità”, che ci ricorda la tentazione di Clinton di applicare il principio di equidistanza anche alla crisi di Timor orientale e la nuova ondata genocida scatenata dagli indonesiani e dalle bande dei loro sostenitori locali, che interpretarono quell’atteggiamento come un segnale di via libera. Fu il punto più basso, il momento più pericoloso della transizione. Ma non è detto che punti più bassi non possano essere toccati e che momenti più pericolosi siano da escludere ora che a Clinton è succeduto Bush jr., con la sua passione per una nuova guerra fredda in Asia.
Il corrispondente dell’Economist co sì riassume gli obbiettivi dell’Aka: indebolire il presidente, che vorrebbe riammettere i comunisti nella legalità, gettar fango su chi rivendica cambiamenti democratici più profondi e più rapidi, e per questa via rafforzare nel partito di Mega- wati gli elementi politici e militari più legati al vecchio regime. Le “macchinazioni”: incendi di chiese cristiane, violenze etniche nelle Molucche e nel Borneo, tutto ciò, in breve, che può contribuire a destabilizzare il paese e riportare a galla la vecchia dittatura.