«Indipendenza, non indifferenza». Il no di Podda al Pd

Con i suoi quasi 400 mila iscritti e iscritte, la Funzione pubblica Cgil è il più forte sindacato tra i lavoratori attivi, cioè dopo lo Spi dei pensionati e, da un paio d’anni, prima dei metalmeccanici della Fiom. Il suo segretario generale, Carlo Podda, viene da una storia Pci. Inizialmente non ha condiviso la svolta della Bolognina («mozione 2») ma è entrato nel Pds e infine nei Ds. Anche per lui il treno partito con la prima tessera del Pci, «nel ’79», si ferma alla stazione di Firenze, dove il congresso Ds chiuderà il lungo viaggio verso l’indefinito. Come i segretari di altre importanti categorie della Cgil che abbiamo intervistato (Rinaldini dei meccanici, Chiriaco dell’agro-industria e Panini della scuola, università e ricerca), Podda non aderirà al Partito democratico ma, con altri e altre, proseguirà un cammino complicato di ricerca che dovrebbe condurre a una nuova forza di sinistra, e sottolinea «nuova».
Avendo contestato, almeno all’inizio, la svolta di Occhetto, ammetterai che la fine dei Ds nel Pd, pur non essendo questa conclusione obbligata, ha una qualche coerenza con gli obiettivi iniziali.
Non vedo coerenze, tranne in un aspetto centrale: i limiti e la gestione della svolta della Bolognina hanno portato all’esito di oggi. Non si è riflettuto abbastanza sulla storia e la natura del comunismo, anche nella sua versione così particolare che è stato il Pci. Alla luce di ciò che è avvenuto in questi anni, direi che gli obiettivi della svolta erano giusti ma la riflessione, la critica, l’analisi non sono andate oltre la definizione di ciò che non si vuole essere, senza domandarsi che cosa si voleva diventare. Con questo grande rimosso – una Bad Godesberg incompiuta – non poteva che finire così. La rimozione ha portato alla perdita delle radici.
Come firmatario della mozione Mussi-Salvi hai seguito i congressi Ds. Che impressione ne hai riportato?
Nel dibattito congressuale non mi hanno colpito tanto le motivazioni dei favorevoli o dei contrari, quanto piuttosto una domanda insistente: «Davvero pensi che possiamo restare così?». La leva principale dello scioglimento dei Ds è l’insoddisfazione diffusa per quel che si è, o non si è. Non ho visto nulla della passione che comunque ha accompagnato la svolta della Bolognina, oggi c’è solo il canto della sirena del nuovismo. In molti casi, anche chi ritiene sbagliata la fine nel Pd non ha passioni, né un orizzonte. Io ho firmato la mozione Mussi-Salvi perché si pone la questione del socialismo e tenta di ricostruire un’unità a sinistra. C’è uno spazio a sinistra, abitato da chi, magari in forme diverse, si pone le stesse questioni. La mozione ha l’obiettivo di trasformare quel che si muove a sinistra in una massa critica. Dunque, non posso entrare nel Pd ma non intendo aderire a un partitino di sinistra già esistente: mi interessa contribuire a delineare un percorso politico.
Ho capito, il Pd non è di sinistra. Ma che caratteristiche deve avere una forza di sinistra?
Una collocazione internazionale socialista, una scelta di campo nel conflitto capitale-lavoro e contro le crescenti disuguaglianze sociali. Nel manifesto fondativo del Pd si presuppone invece un’equidistanza rispetto al conflitto capitale-lavoro, e chi come me viene da una storia segnata dal «partito dei lavoratori» non può che guardare altrove. Si può discutere un partito che vuole andare anche oltre i lavoratori, non c’è niente da discutere, invece, con chi lavora a un partito senza i lavoratori. Il punto più alto della storia repubblicana, rappresentato dalla Costituzione, recita già all’art. 1 il diritto al lavoro. Addirittura, pur essendo stata scritta quando si conosceva soltanto il lavoro dipendente a tempo indeterminato, si pone l’obiettivo della sua tutela, in qualunque forma venga esercitato. Ora, il paradosso è che a rappresentare questa centralità costituzionale non c’è più neanche un partito.
Ma tu fai il dirigente sindacale. E’ così importante un riferimento politico nella battaglia dalla parte dei lavoratori?
Una rappresentanza sociale che non si ponga il problema della rappresentanza politica del lavoro, è destinata a restare senza una sponda politica, non ha una prospettiva. Io rivendico l’indipendenza dei soggetti sociali e dei sindacati, ma indipendenza non significa indifferenza.
Prima che l’effetto Partito democratico, nella Cgil rischia di farsi sentire l’effetto «governo amico» che con i lavoratori pubblici non è molto amichevole.
E’ più semplice unire le sinistre quando si è all’opposizione, quando le parole d’ordine sono «contro» e non «per». Basta guardare al governo Prodi e alle sue difficoltà in fase propositiva. Il rapporto con il governo, per quanto ci concerne, dev’essere riqualificato. Noi abbiamo un problema nel rapporto con chi predica l’equidistanza tra sindacati e imprese, lavoro e capitale. Nel pubblico impiego, per fare un esempio, siamo tutti d’accordo che dev’essere riqualificato l’intervento pubblico, anche l’obiettivo dell’efficienza nei servizi è giusto e lo condividiamo. Noi vogliamo tutelare tanto i dipendenti pubblici quanto i cittadini, gli utenti come qualcuno preferisce chiamarli. Sarebbe curioso che il sindacato non si ponesse il problema della qualità dei servizi, della lotta per la loro efficienza e contro i ticket sanitari. Ma se l’obiettivo che ci si pone è solo la riduzione dei costi, alla fine non si difendono né i diritti dei cittadini né quello dei dipendenti pubblici. Ecco, una nuova sinistra deve avere al centro del suo agire la difesa dei diritti e non l’abbattimento dei costi pubblici.
Farà danni alla Cgil il Partito democratico?
Questo onestamente non lo so, dipende anche dalla Cgil. Dovremo misurarci con regole che tengano conto di uno scenario inedito, anche nella formazione dei gruppi dirigenti. Originariamente, alla base della vita della Cgil c’era il patto Pci-Psi, poi con il superamento delle componenti partitiche si è affermato un sindacato programmatico, ma pur sempre in presenza di due partiti di sinistra. Quando non ce ne sarà neppure uno, non vorrei che paradossalmente qualcuno possa essere tentato di definire i gruppi dirigenti in base all’appartenenza (al Pd, ndr). Io sto alla parola di Epifani, per questo penso che i danni del Pd non siano scontati. Non ho ricette in tasca – chi le ha? Però la questione va affrontata, con serietà.
Facciamo un’ipotesi, azzardata, speriamo fasulla: tra un po’ tutti e tre i segretari generali dei sindacati confederali saranno iscritti allo stesso partito, il Pd. Come si verrebbe a trovare la Cgil?
Sarebbe molto difficile per noi, complicato per la nostra autonomia. Tantopiù in presenza di un governo di centrosinistra.