Le rivolte di lavoratori e contadini mettono in crisi il paese
Gurgaon. E’ un nome sconosciuto in Italia. Eppure, nelle piazze di questa città del Nord dell’India, vicinissima a Delhi, la capitale, lavoratori e polizia, a luglio, si sono duramente scontrati per tre giorni, provocando una mezza crisi di governo nella più “grande e popolosa democrazia del mondo”. Gurgaon è uno dei grandi poli di sviluppo industriale e tecnologico dell’intera India; si trova nello stato dell’Haryana. Se prendete una cartina geografica dell’India, vi accorgerete immediatamente che l’Haryana circonda quasi completamente la capitale Delhi: è uno dei luoghi privilegiati per gli investimenti internazionali in India. In questi anni sono sorte fabbriche, stabilimenti e uffici enormi. Tra cui l’insediamento dell’Honda, multinazionale giapponese produttrice di auto e di moto. Lo stabilimento Honda di Gurgaon, a vederlo, è impressionante: sembra di essere a Mirafiori. Anzi, meglio, in una Mirafiori avveniristica, enorme ma tecnologicamente avanzata, con pochissimi addetti. Una Mirafiori del ventunesimo secolo, il secolo dell’Asia.
I lavoratori di questa Mirafiori indiana hanno deciso di dire basta al management (nipponico) della loro azienda: hanno chiesto il rispetto dei loro diritti sindacali. E sono scesi in piazza: era il 15 luglio scorso. La polizia dello stato dell’Haryana, uno stato governato dal Congresso, è intervenuta con la forza per reprimere le proteste operaie.
Risultato: oltre cento feriti, alcuni dei quali sanguinanti e portati negli ospedali cittadini. Le manifestazioni sono continuate per almeno due giorni: gli abitanti di Gorgaon hanno organizzato anche un ban, termine indiano che sta per chiusura delle attività economiche di una città a sostegno di proteste sociali. Per giorni e giorni, prima dei disastri di Bombay, le televisioni del paese hanno inondato le case e le casupole degli indiani con i filmati e le fotografie della repressione: una donna sanguinante che manifestava per sapere la fine che aveva fatto suo marito nella repressione ha fatto il giro del subcontinente (l’India è sempre la “più grande e popolosa democrazia del mondo”). I sindacati nazionali, i partiti della sinistra, l’opposizione di destra, hanno subito chiesto un dibattito alla Camera Bassa del Parlamento di Delhi: il Congresso e il suo governo si sono trovati sul banco degli accusati. Il governo dell’Haryana ha dovuto dar vita, immediatamente, ad una inchiesta indipendente sui fattacci di Gurgaon; gli alti funzionari della polizia dello stato hanno dovuto dare la loro disponibilità a rimettere l’incarico. Sonia Gandhi, leader e presidente del Congresso, ha parlato di «fatti che non sarebbero mai dovuti accadere».
Insomma Gurgaon è diventato un caso nazionale. Un caso che ha ulteriormente infiammato la situazione politica a Dehli. Ma Gurgaon non è l’India: «attenti – ci spiega un attento osservatore della realtà indiana – nell’Haryana si scontrano due settori dell’élite del paese, l’alta élite capitalistica e l’élite più bassa ma pur sempre privilegiata, la classe lavoratrice dell’industria più avanzata». L’India è ben più grande e ben più complessa. In India ci sono oltre 400 milioni (avete letto bene, quattrocento milioni) di lavoratori; solamente il dieci per cento opera nel “settore organizzato”, ovvero fabbriche, uffici, stabilimenti. Il restante novanta per cento, ovvero 360 milioni di uomini e donne lavora per strada, negli esercizi commerciali, nelle campagne, insomma nei settori «non organizzati». L’India, la “vera” India, è lì, dove ci sono i lavoratori non organizzati, i “precari dei precari”. Ma anche nei labirinti della precarietà emergono lotte e questioni sociali: sempre a luglio, erano in sciopero i lavoratori dei “giardini del thè” del North West Bengala. Il West Bengala è un altro stato dell’Unione, uno stato orientale che ha come capitale Calcutta; è uno stato importante, in forte sviluppo grazie alle politiche del governo statale (guidato dal Cpim, il Partito comunista marxista dell’India). Nel Nord dello stato, nella regione di Darijleing si coltiva una pregiatissima e ricercatissima specie di thè, esportato in tutto il mondo. I lavoratori dei giardini di thè (si chiamano così le coltivazioni della bevanda preferita in Occidente, assieme al caffè) guadagnano (leggete bene) un euro al giorno. Nelle settimane di luglio, hanno deciso che non potevano andare avanti così: sono entrati in sciopero per chiedere un aumento. Solamente dopo l’intervento e la mediazione del governo di sinistra del West Bengala, hanno ottenuto qualche spicciolo in più (2 cent di euro) e sono ritornati al lavoro.
L’India è un vulcano. Che sta diventando attivo. Abbiamo parlato dei lavoratori dell’Honda e dei lavoratori dei giardini di thè. Ma l’elenco è semplicemente impressionante: ad esempio, nell’Andhra Pradesh e nel Punjab, due grandi stati del Sud e del Nord dell’Unione, i contadini sono sempre più in rivolta per le loro condizioni finanziarie, per i debiti che li opprimono e che li portano spesso al suicidio.
Il Paese sembra risvegliarsi. Le lotte sociali si moltiplicano. Lo sviluppo economico tumultuoso, dando speranze di vita migliore, e aumentando i già giganteschi squilibri territoriali, sta partorendo una gigantesca “questione sociale” indiana. O, meglio, come ci dicono gli osservatori che vivono in India, stanno crescendo tante, diverse questioni sociali. L’India è un gigantesco subcontinente, ricco di contraddizioni e di sfide: ogni regione, ogni stato dell’Unione Indiana, ha particolari problemi da affrontare. Se andiamo nel poverissimo Bihar (un grande stato del Nord dove a settembre si svolgeranno le elezioni per il rinnovo dell’Assemblea legislativa), troviamo il conflitto fra le caste inferiori e i fuoricasta, i Dalit, un conflitto sulla spartizione delle poche risorse economiche che arrivano dalle casse pubbliche; se andiamo nell’Orissa, un altro stato povero dell’Est del paese, troviamo un duro scontro sociale fra i pescatori tradizionali e l’elite dei proprietari locali. I pescatori protestano contro le recinzioni che fanno i proprietari e che impediscono loro di svolgere le consuete attività economiche. Al centro delle lotte c’è la coltivazione dei gamberetti che l’Orissa esporta in tutto il mondo (comprese le nostre tavole). Le tensioni sociali hanno già effetti sul mondo politico. Come ci spiega uno studioso locale, «la democrazia indiana permette di dare un po’ di voce a interessi altrimenti emarginati completamente. Ovviamente il sistema è altamente imperfetto e fortemente manipolato anche a causa del particolare meccanismo istituzionale, ma qualche spazio ulteriore viene comunque creato». La crisi di Gurgaon ha ulteriormente acceso lo scontro fra sinistra e Congresso e messo in pericolo gli equilibri che sostengono il governo Singh. Tutto ciò non è casuale.
Facciamo un salto indietro: nel maggio scorso, il Bjp, la destra nazionalista indù fino allora al potere a Delhi con l’appoggio dell’Nda, l’Alleanza democratica nazionale, ha perso le elezioni anticipate. Il Congresso è riuscito a ritornare al governo centrale, grazie ad una coalizione, l’Upa, l’Alleanza progressista unita, appositamente messa in piedi, e grazie al sostegno della Sinistra, Cpim e Cpi (Partito comunista dell’India). La Sinistra ha deciso di appoggiare il Congresso, nonostante che sia proprio il partito di Sonia il suo antagonista in Kerala e in West Bengala (due stati storicamente con una forte presenza politica e istituzionale della Sinistra) proprio per combattere il Bjp, l’alfiere del nazionalismo e del fondamentalismo indù.
Per un anno il governo, guidato da Manhoman Singh, esponente del Congresso, tecnocrate di formazione inglese, architetto delle riforme economiche liberali dell’India, è riuscito ad andare avanti con l’appoggio della sinistra. Ora però gli equilibri stanno cambiando: la destra nazionalista infatti è entrata in una gravissima crisi politica. La sua leadership e l’organizzazione che da sempre sponsorizza i partiti di destra, l’Rss, l’organizzazione dei volontari nazionali, sono in rotta di collisione e non hanno assolutamente elaborato ancora l’inaspettata e grave sconfitta elettorale del maggio 2004. A settembre, l’attuale presidente del Bjp e leader dell’opposizione parlamentare alla Camera Bassa del Parlamento nazionale, Lal Advani dovrà abbandonare una delle due cariche. L’Rss pretende la sua testa per i suoi pessimi rapporti con la galassia del fondamentalismo indù. Se arriverà alla guida del partito della destra (o dell’opposizione parlamentare) un esponente più legato alla galassia fondamentalista, ciò metterà in serio pericolo l’esistenza stessa dell’Nda, dell’Alleanza democratica nazionale, la coalizione fin qui guidata dal Bjp.
Il Bjp infatti per vincere le elezioni ha sempre avuto bisogno di alleati: li ha trovati in una serie di realtà regionali, tra partiti espressioni spesso di caste inferiori o intermedie. Sono partiti secolarizzati (ovvero laici) e vicini a interessi sociali e comunitari lontani dei valori della destra indù, ma disponibili all’intesa con il Bjp per odio nel confronti del Congresso e della dinastia Nerhu. Questi partiti, però, non sono facilmente disponibili ad riallearsi con un Bjp ancora più fondamentalista. Specialmente se avranno di fronte a loro un’alternativa credibile: quella della Sinistra.
La sinistra potrebbe (e l’intenzione da parte della giovane classe dirigente del partito c’è, purché si tratti di intese per governare, non di mere alleanze elettorali) lasciare l’intesa con il Congresso (i punti di frizione e di scontro fra Sinistra e Upa si stanno moltiplicando, dalle crisi sociali, alle politiche di privatizzazione, dalla politica estera ai rapporti con il Nepal) per organizzare una nuova coalizione di partiti regionali e castali, “secolare” e “progressista”, con una forte agenda di sinistra (questa è la condizione che il vertice del Cpim pone).
Come abbiamo visto, ciò è legato all’evoluzione della crisi della destra e quindi dell’Nda; ma la possibilità politica è concreta. In tal caso, le tante domande sociali che stanno attivando il vulcano India potrebbero trovare una risposta nella complessa, ma sempre vitalissima, democrazia indiana. L’India diventerà “rossa”?