I seggi elettorali si aprono oggi in India per 134 milioni di elettori, chiamati a rinnovare le assemblee legislative di 5 stati: una consultazione parziale e che non riguarda direttamente gli equilibri politici nazionali, eppure assai importante. Non solo perché è il primo test elettorale dopo lo scandalo Tehelka.com: quello suscitato da giornalisti che si sono finti commercianti d’armi e hanno filmato, poi diffuso su internet, funzionari e ministri che intascavano tangenti – il ministro della difesa è stato costretto a dimettersi e l’effetto per la credibilità del governo centrale è stato devastante. Soprattutto, è importante perché tra i cinque stati coinvolti c’è il Bengala occidentale, circa 80 milioni di abitanti e 50 milioni di elettori, capitale Kolkata (ormai Calcutta è chiamata così). E in Bengala occidentale per la prima volta il partito comunista, saldamente al governo da 24 anni, deve seriamente lottare per mantenere il suo consenso.
Le previsioni sono incerte. Il Cpi-m (partito comunista indiano – marxista), alla guida di un Fronte delle sinistre, ha la sua base di consenso nelle campagne (in uno stato al 75% rurale). E con ragione: grazie alla sua storia di lotte contadine e occupazioni di terre, il Bengala è tra i pochi stati dove la riforma agraria è stata fatta davvero; il governo delle sinistre ha messo un limite alla grande proprietà e distribuito le terre a 2,2 milioni di fittavoli, 1,6 di mezzadri e quasi un milione di braccianti. In questi giorni i candidati comunisti insistono sui risultati positivi dell’ultimo quarto di secolo: il risanamento dei grandi slum di Calcutta, con miglioramenti nel sistema fognario e la distribuzione di elettricità; l’istruzione gratuita per tutti fino alla dodicesima classe, l’istituzione di scuole superiori tecniche, di medicina e di tecnologie dell’informazione. Nessuno lo nega: il governo comunista del Bengala occidentale è riuscito togliere il potere a una piccola élite di zamindar, proprietari terrieri feudali e ha sviluppato le campagne con piccoli lavori pubblici, bonifiche, irrigazione. Il risultato è che le campagne sono tra le più produttive della nazione e il reddito procapite in Bengala occidentale negli anni ’90 è aumentato del 5% annuo – il terzo miglior risultato in India dopo il Maharashtra (stato industriale con Bombay) e il Gujarat. D’altra parte negli ultimi anni, da quando l’India ha imboccato la strada della liberalizzazione economica e smantellato un sistema di controllo centralizzato ormai soffocante e corrotto, anche i comunisti in Bengala occidentale parlano di liberalizzare, alleggerire le industrie statali inefficenti, chiamare investimenti esteri (e ricostituire una forza industriale nello stato): di recente il governo del Bengala occidentale ha approvato tre grandi investimenti petrolchimici con un indotto considerevole.
Ma oggi il consenso delle sinistre è minacciato. Non solo perché il Cpi-m per la prima volta non candida il suo leader leggendario, Jyoti Basu, che si è dimesso dalla carica di chief minister (capo del governo) nel settembre 2000, a 84 anni (era al governo ininterrottamente da 23 anni): il suo successore, Buddhadev Bhattacharya, non ha lo stesso carisma personale. A sfidare la sinistra è soprattutto un personaggio imprevedibile ma trascinante, la signora Mamata Banerjee, che qualche anno fa ha fondato un suo partito Trinamul Congress distaccandosi dal Congress dei Gandhi, e da allora ha guadagnato grande popolarità tra le classi medie urbane: tanto da togliere Calcutta centro alle sinistre. La sua ideologia è populista, il suo stile molto personale. Fino all’ultimo scandalo, in marzo, era ministra delle ferrovie nel governo centrale (di centrodestra): dimettersi per protesta contro la corruzione è stato il suo gesto più notevole. Ma in Bengala ha capitalizzato sullo scontento per gli aspetti di “regime” sviluppati dalle sinistre di governo, la corruzione (l’ex ministro delle finanze comunista Ashok Mitra, a cui chiedevamo un bilancio del governo delle sinistre, lamentava non tanto la corruzione quanto l’inefficacia dei suoi compagni). E, per la prima volta, sembra minacciare anche lo “zoccolo duro” della sinistra bengalese, le campagne: un altro segno della transizione indiana.