Indagine Isae: il 73 per cento delle famiglie si sente povero

«Se potessi avere mille lire al mese…» cantava Gilberto Mazzi nel 1939, interpretando il sogno proibito della grande maggioranza degli italiani dell’epoca, desiderosi di condurre un’esistenza finalmente al riparo da ristrettezze economiche. Da allora sono passati quasi settant’anni, l’Italia è diventata una potenza industriale e il concetto di “vita dignitosa” ha assunto ben altri significati. Ma non per questo stiamo meglio. Alla crescita dei bisogni e delle velleità consumistiche non ha corrisposto infatti negli ultimi anni una altrettanto consistente crescita del potere d’acquisto dei redditi di operai e impiegati, che anzi hanno segnato il passo, mentre il costo di alcuni beni primari, come ad esempio la casa, è salito alle stelle. Il risultato è che oggi ben il 73% delle famiglie si sente povero, soprattutto i nuclei composti da una sola persona o quelli molto numerosi.
Questo, almeno, è quanto emerge dai dati forniti ieri dall’Isae, relativi agli ultimi 12 mesi (da luglio 2005 a giugno 2006). Agli intervistati è stato chiesto di fare un confronto tra il reddito dichiarato e quello ritenuto «necessario per condurre una vita senza lussi ma senza privarsi del necessario». La soglia di “povertà soggettiva” indicata, in media, è stata pari a 1.850 euro dalle famiglie di due persone. Se si pensa che il salario medio di un metalmeccanico è di 1.200 euro, è chiaro che per arrivare alla fine del mese senza stringere troppo la cinghia servono almeno due stipendi. Non sorprende pertanto l’elevata percentuale di famiglie “soggettivamente povere” che dichiarano di incontrare difficoltà nell’acquisto di generi alimentari (oltre il 16%). Per circa il 40% delle famiglie povere risulta inoltre problematico il pagamento delle utenze e, in misura minore, coprire le spese per l’abitazione e per la salute. Che i poveri siano «decisamente più pessimisti dei non poveri nei giudizi sulla situazione economica, generale e familiare, sia nelle valutazioni per il passato, sia nelle aspettative per il futuro» è abbastanza prevedibile. I nuclei con un reddito effettivo più basso, spiega l’Isae, «sono anche quelli che più spesso si dichiarano soggettivamente poveri, ma risulta insoddisfatto – segnala l’istituto – anche un nucleo su tre fra quelli con reddito elevato».

E’ bene ricordare che, secondo le statistiche ufficiali dell’Istat, va considerata “relativamente povera” una coppia con consumi inferiori, per il 2004, a 920 euro, mentre in condizioni di povertà assoluta è quella famiglia che non ha risorse per acquistare un paniere di beni di sussistenza (valutato per il 2002 in 574 euro per una coppia).

Comunque sia, una cosa è certa: il miracolo promesso da Berlusconi agli italiani nel 2001 non si è realizzato. Adesso sta al nuovo governo di centrosinistra attuare politiche di segno opposto, che migliorino le condizioni di vita di tutti e, in particolare, dei più deboli. Il problema è riuscire a farlo malgrado la pesante situazione dei conti pubblici ereditata. Ieri la ministra per la Salute Livia Turco ha proposto l’introduzione di «una tassa di scopo» tramite la quale finanziare un fondo per la “non autosufficienza”. «Oggi le famiglie si impoveriscono – ha spiegato Turco – per sostenere gli anziani non autosufficienti, che saranno sempre di più nei prossimi anni. E’ necessario che, sulla base del reddito, i cittadini partecipino a un fondo che dia loro il diritto all’assistenza domiciliare, all’aiuto per le famiglie, alle case protette».

Sempre ieri il ministro della Solidarietà Sociale, Paolo Ferrero, ha annunciato durante il question time alla Camera che all’inizio di agosto il governo bloccherà gli sfratti per anziani e portatori di handicap. «Se si parla di una tassa di scopo sui redditi più alti – ha detto Ferrero commentando la proposta Turco – sono d’accordo, perché va nella direzione di un aumento della progressività delle imposte. Non sono però d’accordo su un aumento del ticket sul ricovero ospedaliero per i redditi più alti». Secondo il ministro, infatti, si potrebbe produrre «il fenomeno del passaggio di una parte della popolazione dal Welfare pubblico alle cliniche private». Inoltre, nota Ferrero, ci sarebbe «la rivendicazione degli strati più ricchi di non partecipare alla spesa sociale se poi devono comunque pagare le prestazioni».