INCIDENZA DELLA GUERRA SUI FLUSSI MIGRATORI

L’Italia è in guerra. Militari italiani sono in Iraq, in Afghanistan e continuano a occupare un po’ come nei sogni fascisti i Balcani; li troviamo in Serbia-Montenegro, ovvero in Kossovo, in Bosnia-Erzegovina, nella ex colonia Albania. Le truppe italiane sono nelle ex colonie Etiopia ed Eritrea e sarebbero ancora in Somalia e Libia, se non ne fossero state cacciate dai popoli di questi paesi. In Italia vi sono diverse basi Nato e statunitensi, che operano in assoluta indipendenza dal parlamento italiano e fanno sì che, a dispetto della Costituzione, siano dislocate nel paese armi atomiche e vi transitino e approdino navi e sommergibili nucleari, che tengono costantemente sotto ricatto i popoli del Medioriente.
Spesso ci si interroga sulla mancanza di forti mobilitazioni contro la presenza di truppe del nostro paese all’estero. Alle enormi manifestazioni seguite all’aggressione militare statunitense, che ha impedito una partecipazione immediata del governo italiano alla guerra in Iraq, è seguito un periodo di assuefazione senza variazioni di rilievo neppure quando le truppe italiane, coperte dalla foglia di fico dell’Onu, sono intervenute per occupare proprio la zona di Nassirya in cui sono dislocate le concessioni petrolifere dell’Eni.

I motivi di fondo dell’apatia dei pacifisti sono principalmente tre: una parte della popolazione si era mobilitata per un senso di pietà verso le popolazioni bombardate. Una volta scoppiata la guerra, nonostante le manifestazioni, si è avuta l’impressione di aver oramai la coscienza a posto, dal momento che non era più possibile far nulla. Altri si erano mobilitati soprattutto contro l’unilateralismo statunitense, che questa volta agiva senza copertura delle Nazioni Unite e senza aver trovato un accordo in grado di coinvolgere l’intera Unione Europea. In tal caso, la protesta è scemata con la copertura data all’occupazione dal mandato dell’Onu e con il coinvolgimento diretto o indiretto di quasi tutti i paesi UE. Infine, altri, mobilitatisi per la palese falsità dei motivi forniti dagli Usa all’aggressione, hanno finito per accettare le giustificazioni ideologiche date dai principali mezzi di comunicazione italiani e occidentali. Le prove erano false e, tuttavia, si è ottenuta un’importante vittoria della “democrazia sulla tirannia di Saddam Hussein”.
Poco è stato fatto per smascherare il tipo di democrazia esportata dai paesi occidentali. La guerra avrebbe permesso di svelare la faccia nascosta della democrazia dei paesi imperialisti, una democrazia fondata su modelli istituzionali elaborati in occidente che hanno sempre escluso le popolazioni colonizzate, gli immigrati. Ciò è stato mostrato nel modo più chiaro tanto dalla pubblicistica del governo britannico di Blair, che ha rivalutato la politica coloniale con la tesi che la democrazia è utile per i soli popoli sviluppati, mentre gli altri vanno posti sotto la tutela delle democrazie occidentali, quanto dal parlamento francese che ha permesso la diffusione nelle scuole di libri che rivalutano le politiche coloniali, i cui massacri e genocidi sarebbero, dunque, effetti collaterali dell’esportazione di progresso e di una cultura superiore, democratica appunto. Si aggiunga, infine, che quasi tutte le aggressioni imperialiste dopo la caduta dell’Unione Sovietica sono avvenute senza l’approvazione dei parlamenti, sempre più svuotati di un qualsiasi potere reale, e senza formali dichiarazioni di guerra. Il che ha consentito ai paesi invasori di non rispettare neppure il diritto di guerra verso i paesi aggrediti, con la giustificazione che si trattava di “operazioni di polizia internazionale”. I paesi al di fuori delle democrazie occidentali non sono considerati delle nazioni autonome, ma dei territori in cui imporre i propri modelli economici e di conseguenza politici, trattando i rappresentanti delle istituzioni locali alla stregua di delinquenti e canaglie.
Inoltre non vi è stata continuità nella mobilitazione poiché le avanguardie politiche non sono riuscite a mostrare i legami profondi fra l’aggressione militare e le conseguenze che essa ha sulle popolazioni civili dei paesi aggressori. Spesso ci si è limitati ad indicare una concausa dell’aggressione: l’appropriazione indebita ed unilaterale da parte degli Usa delle risorse petrolifere dell’Iraq, in una fase di crisi energetica dovuta al progressivo esaurirsi delle risorse. Nel momento in cui gli Usa hanno deciso di spartire la torta petrolifera con i propri alleati europei, il senso di ingiustizia si è attenuato e si è dato maggior credito a chi lasciava intendere che le concessioni petrolifere erano il prezzo da pagare per una popolazione che non era in grado da sola di liberarsi dalla tirannia e, dunque, non era capace di gestire autonomamente le proprie risorse.
Tanto più che molti avevano condannato la guerra come “non conveniente” dal punto di vista economico, mentre i fatti hanno dimostrato il contrario. Chi ha potuto, come Stati Uniti e Gran Bretagna, liberarsi nel corso del conflitto di una parte significativa di merci eccedenti è in parte e momentaneamente uscito dalla crisi di sovrapproduzione. Le merci belliche sono state finanziate dalla fiscalità generale, secondo il modello del “neo-keynesismo militare”. Le industrie belliche e il loro vastissimo indotto hanno così potuto riprendere la produzione sicure di poter piazzare, sulla popolazione irachena, le proprie merci, la cui produzione ha distribuito le briciole in termini di occupazione anche ai lavoratori.
Tuttavia, per i lavoratori dei paesi che inviano le proprie truppe all’estero, gli svantaggi sono indubbiamente maggiori dei vantaggi. Le compagnie che operano in Iraq, Eni compresa, sono private e curano i propri interessi particolari. Il prezzo degli idrocarburi nei paesi capitalisti non è affatto diminuito, ma si è accresciuto per l’enorme spreco che ne ha fatto la macchina bellica e per le azioni di sabotaggio della Resistenza. Più in generale, dalla crisi di sovrapproduzione all’interno del modo di produzione capitalistico, si esce solo con le guerre. Più aumenta la crisi, più crescono d’intensità i conflitti. Certo, per ora essi si sono svolti al di fuori dei paesi imperialisti, ma le disperate e spesso irrazionali risposte dei paesi aggrediti cominciano a farsi sentire anche in occidente, in primo luogo con attacchi terroristici, in secondo luogo con il costante senso di paura e instabilità che ha favorito una legislazione d’emergenza, un costante stato d’eccezione che rende ricordo del passato quei diritti formali individuali che si vantano di esportare i paesi imperialisti.
Con la guerra crescono le spese militari e della sicurezza per evitare il terrorismo. Tali spese, tuttavia, ricadono su una fiscalità generale sempre meno progressiva, sempre più sulle spalle delle sole classi lavoratrici. Inoltre l’aumento delle spese del settore militare implica la costante riduzione della componente indiretta del salario, ovvero di sanità, istruzione, trasporti, strutture per anziani pagate al di sotto dei prezzi di mercato grazie alla fiscalità generale. Infine, la politica di guerra con il suo portato di distruzione dei paesi colpiti, d’intimidazione e ricatto rivolta ai paesi che non si sono ancora del tutto sottomessi ai diktat delle democrazie occidentali, ovvero alle politiche neoliberiste di Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, spinge molti lavoratori di tali nazioni a dover abbandonare le proprie terre e a cercare fortuna nei paesi “democratici”. Anche in tal caso la democrazia occidentale mostra immediatamente il suo volto: gli immigrati sono sbattuti in veri e propri campi di concentramento, i Cpt, da cui sono spesso rispediti in paesi dell’Africa del nord, i cui governi, resi compiacenti da accordi commerciali con le democrazie occidentali, provvedono a deportarli.
Tutto ciò naturalmente non riesce a fermare l’immigrazione, inarrestabile finché vi saranno guerre di rapina e politiche economiche volte allo sfruttamento dei paesi neocolonizzati. Del resto, questa forza lavoro a bassissimo prezzo, per le condizioni disumane in cui è costretta, priva di difese sindacali poiché spesso lasciata artatamente nella clandestinità, fa troppo comodo ai proprietari dei grandi mezzi di produzione. I grandi monopolisti la utilizzano per abbassare il prezzo della forza lavoro indigena, per attaccare ogni tutela e diritto conquistato dalle lotte del movimento operaio. Aumentando l’esercito industriale di riserva cresce la ricattabilità dei lavoratori impiegati, che sono costretti o a precarizzare e flessibilizzare le proprie condizioni di lavoro o a perderlo.
Certo, gli immigrati apportano un decisivo avanzamento del patrimoni culturale dei paesi in cui si recano, consentono di pagare le pensioni in quanto arrestano l’invecchiamento delle popolazioni locali, impediscono la chiusura delle scuole. Inoltre ogni essere umano dovrebbe essere libero, dal momento che lo sono le merci, di potersi spostare e decidere di vivere in qualsiasi paese del mondo. Purtroppo non è questo il problema, nella stragrande parte dei casi non si tratta di volontari, di migranti, ma di veri e propri deportati, vittime delle democrazie imperialiste. Quasi tutti non sono stati liberi nella loro scelta di emigrare, ma vi sono stati costretti dalle guerre, dalla fame imposta mediante lo scambio ineguale dalle democrazie occidentali, dai conflitti multietnici da quest’ultime fomentati, non fosse altro che con la vendita di armi ai belligeranti. La presenza degli immigrati, inoltre, nell’immediato lede le condizioni di lavoro e di vita delle popolazioni locali, che se non formate, se non coscienti di appartenere alla stessa classe di sfruttati dal lavoro salariato, finiscono per reagire in modo razzistico. Tali pulsioni irrazionali sono del resto organizzate, finanziate e sostenute in tutti i modi da quelli stessi proprietari dei grandi mezzi di produzione che producono armi, Ogm, che sfruttano le risorse naturali dei paesi neocolonizzati, che prestano denari ad usura ai dittatori o alle classi dirigenti corrotte che hanno imposto a tali paesi. In altri termini dietro i partiti razzisti, che giocano sull’ignoranza e la bestialità da essi stessi prodotta in settori delle masse, vi sono gli stessi padroni che vogliono aumentare l’esercito industriale di riserva per ricattare i lavoratori impiegati, per aumentare la disoccupazione. Sono gli stessi che controllano i grandi mezzi di disinformazione, tv, radio, giornali, settimanali che diffondono a piene mani pregiudizi, razzismo e che sostengono e pubblicizzano partiti più o meno apertamente xenofobi.
Questi ultimi giocano sulla disperazione, sulla disoccupazione provocate dall’aumento dell’esercito industriale di riserva, per volgere la giusta rabbia delle masse non contro le reali cause della loro sofferenza, gli sfruttatori borghesi, ma contro i loro colleghi immigrati. Tali divisioni, in una “guerra fra sfruttati”, non fa che indebolire le rivendicazioni dei lavoratori su salari e diritti, oltre che favorire con leggi liberticide la soppressione delle libertà formali. In tal modo si tende a riprodurre quella stessa situazione che impediva ai lavoratori del mondo antico e del mondo feudale di avere la forza sufficiente per portare avanti le proprie rivendicazioni. La schiavitù nel mondo antico, la servitù della gleba nel medioevo impedivano l’unità della forza lavoro, impedivano ai lavoratori anche liberi di riconoscersi come classe, di divenire rivoluzionaria in quanto non ha nulla da perdere al di là delle proprie catene. Essendoci una fascia della popolazione in condizioni ancora più misere, spesso per mantenere il propri status i lavoratori liberi tendevano ad identificarsi con i ceti dominanti degli sfruttatori.
La lotta per la pace, la lotta contro lo sfruttamento, la lotta contro il razzismo possono essere vinte solo colpendo alle radici la loro causa comune, solo unendo in un fronte comune i lavoratori al di là di differenze di razza, nazione o fede religiosa per una società libera dallo sfruttamento del lavoro salariato.