Inchiesta Cgil sui salari: Si lavora di più, si guadagna di meno

Innovazione: la classe operaia va in fallimento.
Si lavora di più, si guadagna di meno.
Sei milioni di lavoratori dell’industria in 10 anni hanno perso fino al 17 per cento del potere d’acquisto.
Lo rivela uno studio Cgil su dati Istat, Mediobanca e Ubs.

MILANO Ma è proprio vero, come ci raccontano ogni tanto certe statistiche, che in Italia il costo del lavoro è aumentato, che i salari – qui parliamo di quelli dell’industria – reggono l’urto dell’inflazione e che, quindi, il potere d’acquisto dei lavoratori non è diminuito affatto? La risposta è un no secco. A tutto. E non si tratta di opinioni, sensazioni, valutazioni o previsioni: bensì di dati, numeri, fatti oggettivi, riassunti in una ricerca curata da Vincenzo Lacorte per il Dipartimento Attività produttive della Cgil e basata su tante autorevoli fonti, italiane ed europee, incrociate tra loro.
Lo studio è tecnico. Le fonti autorevoli: oltre all’Istat, Mediobanca e Ubs, l’Unione di banche svizzere. E la sintesi è chiara. Negli ultimi dodici anni, le buste paga dei lavoratori dell’industria – compresi gli operai agricoli oltre sei milioni di persone – «non hanno tenuto».

Senza eccezione alcuna, prendendo come riferimento le retribuzioni contrattuali (cioè i minimi), nessuna categoria si è salvata. Nemmeno quelle più «forti». Qualcuno ha perso «solo» l’1,5 per cento. Qualcun altro si è fermato al 3,5 per cento. Altri ancora, invece, hanno subito un vero salasso perdendo quasi il 17 per cento.
Ma le cose non sono andate bene nemmeno per le retribuzioni lorde. Che nel periodo considerato – appunto tra il ‘96 e il 2003 – non hanno tenuto il passo dell’inflazione. In questo periodo i prezzi calcolati per le famiglie degli operai e degli impiegati hanno subito un aumento – secondo l’Istat – del 19,4 per cento. Le buste paga sono aumentate, sempre secondo l’Istat, del 19,8 per cento. Un dato prossimo allo zero. Che scende e va «in rosso» se, invece, a raffronto si prende l’indice generale dei prezzi al consumo, che secondo il ministero dell’Economia, è stato del 20,2 per cento. E si tratta, come detto, di retribuzioni lorde, cui vanno sottratte tasse, imposte e contributi vari. Come dire che, conti alla mano, la «questione salariale» a più riprese denunciata con forza dal sindacato, c’è tutta. E che non c’è da stupirsi se ormai da anni i consumi delle famiglie languono e l’economia non riesce a dare segni decisi di ripresa.
Il tutto, mentre, orari di fatto alla mano si lavora di più
Ma guardiamo il dettaglio.

Dieci anni di contrattazione
Il primo passo è stata una rilettura dell’andamento dei minimi contrattuali, sulla base dei rinnovi dei contratti nazionali di lavoro, dall’accordo del luglio 1993 a oggi. Presa la paga base del 1993 di alcune categorie – alimentaristi, chimici, edili, metalmeccanici, poligrafici e tessili – lo studio evidenzia che, fatto 100 il salario di quell’anno, al 1° febbraio 2004 per gli alimentaristi corrispondeva al 92,10; per i chimici il 96,4; per gli edili il 91,81; per i metalmeccanici il 91,10; per i poligrafici il 98,50; per i tessili l’88,30.
Insomma, le retribuzioni non hanno tenuto. Per alcune qualifiche alte, è vero, la difesa del valore reale del ’93 c’è stata. In alcuni casi vi è stato un incremento anche consistente, ma il dato generale è che per le qualifiche medio-basse la condizione salariale contrattuale porta il segno negativo.
Anche leggendo i dati Istat nella loro dimensione pluriennale emerge una sorpresa. Ad esempio la crescita delle retribuzioni lorde totali dell’industria: dal 1996 al 2003, fatto 100 il 2000, si scopre che l’indice 1996 era pari all’89,1 mentre l’indice 2003 è pari al 108,9. Quindi l’incremento di questi anni è stato del 19,8%. Negli stessi anni l’aumento dei prezzi al consumo (dati del ministero dell’Economia, sempre fonte Istat), è stato pari al 20,2%. Conclusione: anche le retribuzioni lorde – dal ’96 al 2003 – non hanno tenuto il passo con l’incremento dei prezzi.

Il costo e gli orari di lavoro
Il lavoro certosino compiuto dalla Cgil ha condotto anche a spulciare i dati di un’indagine realizzata da Mediobanca sui costi medi unitari annui del personale, ottenuta scavando fra i bilanci di 1.941 aziende italiane che rappresentano circa il 40% del fatturato dei rispettivi settori. Ne emerge che nel 1994 il costo medio unitario (retribuzione e contribuzione) del personale era di 34.400 euro. Nel 2002 l’importo medio è stato di 42.500 euro. Quindi, la dinamica di crescita – fatto 100 il 1994 – nel 2002 arriva a 123,5. Considerando che l’inflazione dal ’94 al 2002 è stata del 25,3%, il costo medio unitario annuo del personale è quindi in realtà diminuito, in otto anni, quasi del 2%.
Nelle imprese pubbliche il costo medio unitario era di 40.900 euro nel 1994 e di 49.400 nel 2002. Ma l’indice di crescita, fatto 100 il ’94 porta a 120,8 nel 2002. Quindi anche imprese pubbliche il costo è diminuito del 4,5% in rapporto all’inflazione.
L’indagine di Mediobanca ha monitorato anche le ore lavorate mediamente da ciascun lavoratore. E il risultato è che, nel ’93, mediamente si lavorava per 1.724 ore, compresa l’eventuale cassa integrazione. Nel 2002 sono diventate 1.577. Una riduzione consistente del numero delle ore impegnate e retribuite. Ma il cambiamento più importante è avvenuto nelle ore di cassa integrazione: infatti, se nel 1994 si contavano 1.510 ore lavorate e 200 di cassa integrazione, nel 2002 sono state calcolate 1.503 ore e 74 di cassa integrazione, con una riduzione di 133 ore retribuite pro-capite. Un calo che ovviamente incide sul reddito annuo e quindi sulla condizione salariale complessiva dei lavoratori.
Il costo medio dell’ora lavorata, poi, è passato dai 15,68 euro del ’93 ai 19,26 del 2002, con un incremento del costo dell’ora lavorata del 21,3% a fronte di un’inflazione vicina, nello stesso periodo, al 28%. Dunque il costo medio orario ha subito una riduzione di quasi 5 punti percentuali. Altro che aumento.
Un altro raffronto sulla dinamica del costo del lavoro per dipendente si ricava, poi, sempre dall’indagine di Mediobanca rielaborata dalla Cgil, su 276 multinazionali che operano in Europa e nel Nord-America. Anche in questo caso emerge che il costo del lavoro per dipendente nel 2002 in Italia è cresciuto nel 2002 rispetto al ’93 del 22,8% a fronte di un’inflazione dal ’93 al 2003 del 28%. Quindi anche il valore reale relativo del costo del lavoro per dipendente nelle multinazionali è diminuito all’incirca del 5%.
La stessa dinamica delle imprese medie italiane. Ma, mentre in Italia l’incremento comunque relativo dal 2002 al ’93 è stato del 22,8%, in Germania è stato del 27,8%, in Scandinavia addirittura del 73,3, in Svizzera del 35,2, nel Regno Unito del 45,7. Insomma, la media degli incrementi dal 2002 al ’93 in Europa per le multinazionali è stato del 34,1 e nel Nord-America del 38%. Ma l’inflazione media sia in Europa che negli Stati Uniti d’America dal ’93 al 2002 è stata notevolmente più bassa che in Italia, come minimo di un punto all’anno. Conclusione, mentre il costo del lavoro per dipendente degli altri Paesi è cresciuto, in Italia è diminuito.

Il potere d’acquisto
Ma quale potere di acquisto danno le retribuzioni italiane rispetto a quelle del resto del mondo? L’Unione delle Banche Svizzere (Ubs) fa periodicamente dei confronti su tenore di vita, costo, prezzi, delle principali città del mondo prendendo come riferimento 15 qualifiche e 15 professioni, dal cuoco all’operaio specializzato dell’industria; dalla segretaria al manager, dall’autista di mezzi pubblici al dipendente sanitario all’insegnante. Insomma, figure professionali medie presenti ovunque. Come riferimento c’è Zurigo, il cui livello dei prezzi viene indicizzato a 100: al confronto Milano sta a 74,4 e Roma a 73. Solo 1 punto percentuale divide il dato medio del costo della vita di Milano e Roma, mentre la differenza è del 26% circa tra Milano e Zurigo. Fatto 100 il potere di acquisto, cioè il valore dei salari lordi e netti, di Zurigo come riferimento ecco però che a Milano il raffronto dice che i salari lordi sono solo a quota 44,4 e quelli netti a 40,3: una gran bella differenza, 30 punti in percentuale. Tradotto in termini di potere d’acquisto medio il divario aumenta ulteriormente: Se Zurigo è a 100, Milano è a 59 e Roma 50.

Federalismo contrattuale?
Il contratto nazionale è obsoleto, non risolve i problemi, non premia le giuste differenze salariali, non tiene conto dei diversi tenori di vita, della diversa dinamica del costo della vita, dell’inflazione in Italia. È la verità o è un luogo comune? Rispondono i numeri. Per esempio quelli sulla media salariale lorda annua pubblicati il 21 giugno 2004 sulla base di un’indagine eseguita da una società specializzata: nel 2000 gli operai avevano un salario medio annuo di 18.950 euro, che nel 2003 è passato a 18.688 euro, con un calo – quindi – di 262 euro. Gli impiegati nel 2000 prendevano mediamente 24.655 euro e nel 2003 23.329, con una riduzione ancora più secca: oltre 1.000 euro all’anno. Per i quadri è andata meglio: nel 2000 prendevano 41.020 euro e nel 2003 sono saliti a 42.246, circa 1.000 euro annui in più. Sono aumentate le entrate anche per i dirigenti, che sono passati dagli 81.726 del 2000 agli 82.620 del 2003 (circa 900 euro in più in tre anni, insomma). Ma rispetto alla dinamica inflativa tutti quanti hanno perso in termini di valore reale, con maggior danno per operai e impiegati per i quali anche il valore medio reale è diminuito. «Questo è un dato registrato non da noi, ma dal “Corriere del lavoro” – sottolineano in Cgil – che ha osservato circa un milione di buste paga reali, un campione che equivale a un ventesimo (cioè il 5%) del totale dei lavoratori italiani». E sono interessanti, poi, le differenze tra le diverse aree geografiche: perché prendendo il valore 100 come parametro per l’operaio su base nazionale, risulta che quello del sud prende 93 (che in rapporto a Milano equivale a 87,7), l’impiegato prende 89 (84 rispetto a Milano), il quadro del sud rispetto alla media nazionale prende il 93 (89 a confronto con Milano) e non va meglio neanche al dirigente che prende 92 rispetto alla media nazionale e 86 rispetto al collega medio di Milano.
Differenze forti, insomma, tra 13 e 16 punti. Ma forse il livello dei prezzi rimette le cose a posto? Falso. Perché prendendo come base di riferimento (quindi indicizzato a 100) il livello dei prezzi al consumo del 1995, nel 2003 risulta che a quota 120,5 a Milano, 123 a Napoli, 123, 3 a Roma, 127 a Bolzano, 117 a Pescara, 118 a Bari, 117 a Palermo. Insomma, Torino, Genova, Milano hanno registrato negli ultimi otto anni un’inflazione media più bassa di quella di Napoli e Roma e leggermente più alta tra quella di Bari e Palermo. Quindi, sulla base dei principi del federalismo contrattuale, i salari dovrebbero essere più alti al sud che al nord.