In un anno aumentato del 7% il lavoro precario (e del 65% il profitto)

I dati sull’economia italiana. Gli effetti delle nuove leggi. Contratti di 40 giorni. L’affare delle delocalizzazioni

Nemmeno la crisi economica è uguale per tutti. C’è chi ci rimette – i lavoratori, sempre più condannati alla precarietà, come confermano gli ultimi dati forniti dalle agenzie interinali – e chi, malgrado tutto, ci guadagna. Il fatto che l’Italia sia un paese in recessione, dove la produzione industriale in un anno è diminuita del 3%, non ha frenato l’aumento vertiginoso dei profitti, cresciuti del 65% nel 2004 rispetto all’anno precedente. A dirlo è un’indagine di Mediobanca, realizzata su oltre duemila grandi e medie imprese. Ovviamente non è tutto oro quel che luccica. Al vero e proprio boom degli utili realizzato dalle aziende del siderurgico e metallurgico (+26%, l’aumento maggiore del decennio) fa infatti da contraltare la debolezza del made in Italy (alimentari, beni per la persona e la casa) il cui fatturato è cresciuto solo dell’1,2%. Più che positive invece le performance del settore energetico (+16,3%) e dei servizi pubblici.
Guadagni realizzati a spese dei cittadini, che non hanno tratto beneficio da una corrispondente diminuzione delle tariffe, e, soprattutto, sulla pelle dei lavoratori. Tanto per cominciare, Mediobanca sottolinea che le imprese esaminate, a fronte di guadagni così considerevoli, hanno tuttavia tagliato in un anno 18.710 posti di lavoro, dato che, peraltro, consolida il trend negativo già fatto registrare nel 2002 (-28.631 unità) e nel 2003 (-18.710 unità).

La drastica diminuzione degli occupati, va sottolineato, non ha però inciso negativamente sulla produttività del lavoro, che è anzi aumentata del 3%. Maggiormente premiate sono le imprese che hanno delocalizzato: i dati di Mediobanca, se raffrontati con il calo della produzione industriale certificato dall’Istat, portano a pensare a una maggiore produzione all’estero.

Coerente con questa strategia di riduzione dei costi è l’aumento del lavoro precario. Sono 154.906, di cui il 53% uomini e il 47% donne, i nuovi lavoratori avviati nel mercato del lavoro da Adecco (il primo gruppo multinazionale in Italia nella gestione delle Risorse Umane) nei primi sei mesi del 2005. Nello stesso semestre dello scorso anno erano stati 145.300, la crescita è stata dunque pari al 7%. La durata media di questi contratti, rende noto la stessa Adecco, è di circa 40 giorni, mentre è salita a 31 anni l’età media dei lavoratori temporanei. A conferma che, più che un’occasione offerta ai giovani per cominciare a lavorare, il contratto “atipico” è diventata per molti l’unica possibilità per trovare un impiego.

La precarietà, da eccezione, è diventata la norma, grazie anche alla riforma voluta dal governo Berlusconi, la famigerata legge 30: «La possibilità di operare nel mercato del lavoro come operatore polifunzionale – ha dichiarato Carlo Scatturin, amministratore delegato di Adecco – ci ha fatto ottenere dei buoni risultati anche per quanto riguarda i nuovi strumenti introdotti dalla Riforma Biagi: 200 contratti di staff leasing stipulati nei primi sei mesi dell’anno, circa mille lavoratori che stiamo riposizionando sul mercato attraverso lo strumento della ricollocazione professionale e, infine, oltre 2 mila persone inserite attraverso la ricerca e la selezione».

Secondo una recente ricerca condotta dall’Ires Cgil su dati Inps, il popolo dei parasubordinati avrebbe raggiunto in Italia quota un milione e 785mila. Si tratta di lavoratori pagati poco (in media guadagnano 13.063 euro lordi l’anno) e che, soprattutto, trovano grosse difficoltà per organizzarsi sindacalmente e, quindi, far valere i loro diritti. «La crisi economica – spiega Paolo Ferrero, della segreteria nazionale del Prc – rende più ricattabili i lavoratori e i padroni ne approfittano per attuare lo supersfruttamento e ottenere maxi profitti». In questo contesto, «si conferma – prosegue Ferrero – che la redistribuzione del reddito, sia attraverso i contratti che attraverso il fisco, non solo è una misura necessaria di giustizia sociale ma è anche l’unica strada per determinare un’uscita dalla recessione. E per questo dovrà essere al centro del programma dell’Unione».

Le cifre parlano chiaro: è stato calcolato che negli ultimi 15 anni, dieci punti di Pil (dal 50% al 41%) sono passati dai redditi da lavoro e pensioni alle rendite e profitti. Recentemente il segretario della Fiom Cgil, Gianni Rinaldini, ha ricordato che «se dal 2000 al 2004 i prezzi sono cresciuti del 10, 5%, i salari degli operai hanno visto un aumento dell’8,4%». E ancora, dal 1995 al 2004 le retribuzioni reali italiane sono cresciute solo dello 0,2%, mentre negli stessi anni quelle tedesche sono cresciute del 16,1% e quelle francesi del 10,5%.

«Ormai è chiarito – commenta Giorgio Cremaschi, segretario nazionale della Fiom – che declino industriale vuol dire declino dei salari e dell’occupazione sicura ma non dei profitti, che anzi stanno crescendo a ritmi da anni ’50. La ricchezza continua a passare quindi dal lavoro al capitale. A settembre i metalmeccanici ricominceranno le lotte per il contratto con la certezza – ribadisce Cremaschi – di avere dalla loro parte tutte le ragioni di questo mondo».

Ancora peggio stanno quelle centinaia di migliaia di persone che sono costrette a lavorare in nero. «In un contesto complessivo di crescita dell’occupazione meridionale (+428mila occupati) – si legge nell’ultimo rapporto dello Svimez – il 50% dei posti si è concentrato nella componente irregolare, determinando un incremento dell’irregolarità di oltre due punti percentuali: dal 20,7% del ’95 al al 22, 8% del 2004». In pratica, al sud un lavoratore su quattro è al nero.

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