1. Un cambiamento ‘strutturale’ nel processo di valorizzazione capitalistica, un cambiamento indotto nella sfera ‘sovrastrutturale’ delle istituzioni nazionali e internazionali e, come conseguenza necessaria, uno spostamento del fuoco dell’iniziativa politica dal livello dello Stato e della politica ‘istituzionale’ alla dinamica delle forze sociali, di ‘movimento’, e delle lotte di massa: questo mi sembra il segno ispiratore delle tesi congressuali di Rifondazione, approvate a maggioranza dall’ultimo Comitato politico nazionale del 24-25 novembre.
Nelle considerazioni che seguono vorrei provare ad avanzare alcuni dubbi sull’impianto complessivo del documento congressuale. E’ mia impressione, infatti, che l’analisi che lo sorregge contenga non poche affermazioni discutibili sul piano squisitamente teorico, dalle quali sono state derivate altrettanto discutibili implicazioni sul piano ricostruttivo. Non entrerò, invece, nel merito delle ‘ricette’ politiche che dalle une e dalle altre si sono ricavate. Ma dato che il documento pretende di derivarle da quell’analisi e da quelle implicazioni, è possibile che revocare in dubbio le premesse possa sortire analoghi effetti sulle conseguenze. O magari, possa indurre a giustificarle altrimenti, facendo comunque chiarezza.
2. Le tesi, come accennavo, esordiscono con la constatazione di una «modificazione nel processo di valorizzazione del capitale», i cui caratteri essenziali vengono rinvenuti in un «ulteriore processo di finanziarizzazione» (compiutosi nell’ultimo trentennio), nella maggiore incidenza che nella composizione del ‘capitale variabile’ ha assunto «lo sfruttamento diretto e indiretto del lavoro immateriale» e nella «diretta sussunzione dello sfruttamento dell’ambiente e della natura, nonché della stessa vita vegetale, animale e umana» nel processo di riproduzione capitalistica (tesi 5). Il carattere ‘globale’ della «rivoluzione capitalistica restauratrice» (tesi 4) promana da qui.
Ne deriva, sul piano istituzionale e delle relazioni internazionali «un processo di crisi dello stato-nazione», il cui potere e la cui autorevolezza vengono messi in discussione sia dalla circostanza che «le leve di comando dell’economia risiedono nei grandi organismi costruiti su basi a-democratiche a livello internazionale» (Fmi, Omc, Bm, Ocse), con consequenziale fine della «tradizionale funzione mediatoria che [esso] ha avuto, pur nella sostanziale difesa della società capitalistica» (tesi 10), sia dalla «frammentazione su scala locale del [suo] residuo potere decisionale» (prossimo portato, qui da noi, della recente riforma ‘federalista’ della nostra Costituzione) e dalla crescente privatizzazione (cioè distruzione) del welfare state (tesi 12).
Alla «disarticolazione dello Stato» (ibid.), tuttavia, non segue alcuna crisi delle funzioni del comando capitalistico: «il processo di globalizzazione – si legge infatti nella tesi 11 – pur non essendo né lineare né privo di contraddizioni, è tutt’altro che anarchico e incontrollato. Al contrario produce i suoi organi di governo e li rinnova continuamente» (ibid.), e sta anzi nell’«aver individuato nel Fondo Monetario Internazionale, nella Banca Mondiale, nell’Organizzazione Mondiale del Commercio» il vero «avversario di tutti» il principale merito del «movimento dei movimenti» (tesi 22). Proprio per ciò, per questa sostanziale unificazione delle leve di comando di cui dispone il capitale, «la nozione classica di imperialismo appare inadeguata per caratterizzare l’attuale fase dello sviluppo capitalistico» e «totalmente fuorviante» sarebbe «catalogare i contrasti e i conflitti internazionali fra stati come effetti delle contraddizioni interimperialistiche» (tesi 14): pur essendo vero che «il processo di accumulazione capitalistica ha avuto sin quasi dagli inizi una dimensione sovranazionale», oggi i «processi di centralizzazione e concentrazione capitalistica hanno assunto un carattere sovranazionale senza precedenti». Di conseguenza – prosegue la tesi 14 – «i conflitti di questa fase e quelli in prospettiva non possono essere interpretati in funzione di contrapposizione tra le maggiori potenze»: andranno collocati, piuttosto, «entro l’esigenza di gestione della globalizzazione capitalistica e di salvaguardia del sistema nel suo insieme, al quale si oppone il movimento no-global» (ibid.).
La guerra, vera e propria cifra dell’oggi, cessa pertanto di poter essere rappresentata come «guerra fra Stati sovrani» (tesi 17), per assumere piuttosto la forma di «conflitto civile planetario» (tesi 2). La stessa egemonia politica e (soprattutto) militare degli Stati Uniti d’America si esercita essenzialmente nella funzione di «motore del processo di globalizzazione» e nella «costruzione degli strumenti di governo unipolare e oligarchico del mondo» (tesi 13), tant’è che le «contraddizioni tra grandi paesi capitalisti» non comportano più alcuna guerra guerreggiata, trovando idonea composizione nei «vari organi di governo del processo di globalizzazione», i quali, «seppure dominati politicamente dagli USA, servono da camera di compensazione dei contrasti e delle contraddizioni che pure permangono» (tesi 15).
Questo quadro tendenzialmente unificato non è per ciò stesso impermeabile a qualunque istanza di trasformazione: una «novità» e un «evento» concorrono a incrinarne la compattezza. La novità è la recessione internazionale, capace financo di far vacillare le certezze del cosiddetto «pensiero unico» (tesi 18 e 19): per cui – si legge nella tesi 20 – il processo di globalizzazione, benché non «sbaragliato», inizia oggi «una nuova fase», quella della «gestione della sua crisi». L’«evento» è la «nascita dei popoli di Seattle»: un movimento prodotto dallo stesso sviluppo capitalistico (benché nato «da contestazioni specifiche», è scritto nella tesi 23, si è subito «espresso al livello globale, cioè al livello di sviluppo del capitale»), ma al tempo stesso capace di svelarne l’autentica faccia, non solo per «aver reso visibili i concreti meccanismi di potere che generano l’insicurezza a livello globale», ma soprattutto per aver «dato un volto ed un nome all’avversario», rendendo così possibili «percorsi di unificazione dei conflitti prodotti dalle diverse contraddizioni generate dal processo di globalizzazione» (tesi 22).
Se tutto ciò è vero – enuncia finalmente la tesi 34 – l’«innovazione» nella pratica politica di Rifondazione «è una necessità primaria». Innovazione, innanzi tutto, rispetto alla «concezione (e [alla] pratica che ha influenzato in profondità la sinistra italiana», per la quale la «politica istituzionale» ha rappresentato la «sfera privilegiata e sovraordinatrice della politica stessa», il «momento costitutivo dell’identità dei soggetti sociali e delle classi subalterne»: oggi tutto ciò non è più possibile, non è più possibile cioè alcuna «separazione tra questione sociale e questione democratica», il che richiede la capacità di rappresentare il «conflitto nelle istituzioni» mediante «un nuovo schema ‘vertenziale’», che trasformi la rappresentanza in un «terminale istituzionale delle vertenze sociali e del movimento», rispetto al quale, conseguentemente, non si pone alcun problema «di sbocco politico […] separabile dalla sua crescita» (tesi 39). E innovazione, in secondo luogo, rispetto alla concezione della «trasformazione sociale», che oggi si prospetta «come una costruzione profondamente diversa sia dall’idea insurrezionalista della presa del potere, sia dall’ipotesi strategica riformista (una sequenza di riforme di struttura e di conquiste legislative)», e che, in larga misura, «va reinventata, sperimentata, verificata nella pratica, in un processo che sarà giocoforza complesso ed originale e che non si lascia certo scrivere a tavolino. Noi, oggi, – si legge nella tesi 48 –, possiamo soltanto prefigurare una transizione che, per un verso, si avvale di strumenti peculiari della storia del movimento operaio (dall’attivazione del conflitto sociale e territoriale alla ‘pratica dell’obiettivo’), per l’altro verso, si fonda su una dialettica permanente tra rappresentanza istituzionale e forme di autogoverno, tra poteri centrali e contropoteri diffusi, tra partiti e movimenti. Non ci sarà ‘la’ rottura, ci saranno molti e diversi momenti di rottura. Non ci sarà, forse, ‘la’ sintesi, ma momenti significativi di ricomposizione e unificazione. In un processo di questa natura e portata, il Partito ci pare uno strumento non unico ma certo indispensabile» (ibid.).
3. Se questa veloce sintesi non fa troppo torto alla complessità del documento congressuale, il primo dubbio, come dicevo, concerne la consistenza delle ipotesi analitiche che lo sorreggono. Le tesi argomentano davvero troppo poco i passaggi teorici fondamentali (anzi, il passaggio teorico fondamentale, vale a dire quella «modificazione nel processo di valorizzazione del capitale» individuata come causa causans della nuova fase di sviluppo del capitalismo) e, di conseguenza, le implicazioni politiche e sociali che se ne derivano, oltre ad essere tutt’altro che empiricamente autoevidenti, risultano poggiare come su una palafitta (ogni riferimento all’immagine popperiana della scienza è puramente casuale).
So bene che un documento congressuale non può essere un trattato. Ma un documento (qualsiasi documento) può essere espresso in forma di «tesi» solo quando il sapere che ne costituisce la base è diventato «sapere sociale generale» o, per essere più precisi, ha acquisito lo statuto di sapere socialmente valido nel contesto relazionale al quale il documento stesso è diretto (persino un inedito come le Tesi su Feuerbach prese forma solo quando Marx, con Engels, fece chiarezza nella propria «anteriore coscienza filosofica», redigendo quell’enorme manoscritto che divenne poi noto come Ideologia tedesca). Se così non è, se cioè manca un sapere comune, le «tesi» rischiano di trasformarsi in aforismi, dove la forma concisa non serve però a rappresentare icasticamente un’evoluzione sociale ancora in germe, ma a sottrarre il sapere che vi è contenuto all’obbligo di esibire i propri presupposti di validità, rendendolo perciò assiomatico.
Andando con ordine, le tesi non spiegano, innanzi tutto, perché mai l’accrescimento del processo di finanziarizzazione dovrebbe implicare una qualche modificazione nel processo di valorizzazione del capitale. Senza qui entrare nel merito della vexata quaestio dell’intrinseca coerenza della teoria marxiana del valore, è certo che per Marx (alla cui lezione «disincrostata» la tesi 52 proclama di voler ritornare) lo sviluppo della finanza, cioè di quella particolare industria che produce il denaro come capitale, dipende dal fatto che i movimenti ‘tecnici’ che il denaro compie nel processo di circolazione del capitale industriale e commerciale si estraniano dal resto del processo produttivo per essere svolti, nell’interesse della classe dei capitalisti, da alcuni capitalisti particolari (le banche). Il processo, in altri termini, è analogo, anche dal punto di vista della formazione del valore delle merci e della ripartizione del plusvalore tra i capitalisti, a quello che presiede alla formazione del capitale commerciale. E poiché Marx non ebbe dubbi di sorta nel ritenere che lo sviluppo del capitale commerciale non avrebbe comportato modifiche di sorta nel processo di valorizzazione capitalistica per come descritto nel primo libro del Capitale, non si capisce perché le cose dovrebbero essere diverse per lo sviluppo della finanza.
Lo stesso è a dirsi per l’altra presunta causa di modificazione del processo di valorizzazione, che le tesi rinvengono nell’aumento dell’incidenza dello sfruttamento diretto e indiretto del lavoro immateriale e nella «diretta sussunzione dello sfruttamento dell’ambiente e della natura, nonché della stessa vita vegetale, animale e umana» nel processo di riproduzione capitalistica. In primo luogo, lavoratore produttivo è, per Marx, colui che produce capitale, ossia colui che serve alla valorizzazione del denaro speso dal suo master per remunerarlo: «Che questi abbia investito il suo denaro in una fabbrica d’istruzione invece che in una fabbrica di salsicce, non cambia nulla nella relazione» (Capitale, libro I, capitolo XIV). Il contenuto concreto dell’attività, in altri termini, non c’entra nulla: qualsiasi lavoro umano, ‘materiale’ o ‘immateriale’ che sia, può essere strumento di valorizzazione, giacché la produttività, la capacità di produrre plusvalore, è conseguenza di un rapporto di produzione. E posto che non si può davvero immaginare nulla di più immateriale della trasmissione del sapere, nella quale attività tuttavia Marx non intravvedeva nulla che potesse alterare il processo di valorizzazione, non si capisce – anche qui – da cosa scaturisca quella «modificazione» che le tesi danno invece per verificatasi.
In secondo luogo, che il capitale «sfrutti» la natura o si avvalga ai propri fini dei nostri processi riproduttivi non è certo una novità, né lo era ai tempi di Marx. Il processo lavorativo è, dal punto di vista materiale, processo di trasformazione e di appropriazione della natura per fini particolari e, d’altra parte, ogni processo riproduttivo implica la riproduzione dei rapporti sociali in seno ai quali si svolge: il processo lavorativo e i processi riproduttivi che si svolgono sotto rapporti di produzione capitalistici non fanno certo differenza. Se invece le tesi volessero dire che «lo sfruttamento dell’ambiente e della natura, nonché della stessa vita vegetale, animale e umana» è esso stesso fonte di valore, l’affermazione risulterebbe marxianamente falsa, perché frutto di una duplice confusione fra il concetto di «ricchezza» e quello di «valore» e fra quello di «valorizzazione» e quello di «realizzazione»: secondo Marx, la natura è fonte di ricchezza (cioè di valori d’uso), il lavoro astratto è fonte di valore, il processo lavorativo è processo di valorizzazione quando assume forma capitalistica e il consumo dei salariati e dei capitalisti realizza il plusvalore oggettivato nelle merci. Il resto, per usare parole marxiane, è olla podrida.
4. Ancora più discutibili sono le implicazioni ‘sovrastrutturali’ che si derivano dalle suddette premesse teoriche, e che si possono sintetizzare nella presunta unificazione delle leve del comando globale nelle mani del capitale. Con un paradosso si potrebbe dire: magari! Magari, cioè, fosse vero che viviamo in un mondo unificato, che l’Fmi, il Wto e la Banca Mondiale ne rappresentano gli organi di governo, che l’imperialismo non c’è più perché al suo posto c’è l’Impero: si tratterebbe sicuramente di un mondo assai più ordinato e meno violento di quello in cui viviamo.
La realtà è ben diversa. Storici come Arrighi e Hobsbawm o economisti come Stiglitz e Sen concordano nel ritenere che quel processo che va comunemente sotto il nome di ‘globalizzazione’ coinvolge, attualmente, la ‘base materiale’ della nostra esistenza, mentre la ‘sovrastruttura’ politica e giuridica resta ancorata a livelli territorialmente circoscritti dalle dimensioni attuali degli Stati-nazione. In altri termini, mentre la produzione, la circolazione e lo scambio di merci, forza-lavoro e capitali si vanno tendenzialmente mondializzando, ordinamenti e istituzioni non fanno altrettanto: per dirla con le parole di Stiglitz, «viviamo un processo di globalizzazione analogo a quello di un secolo e mezzo fa, ma senza le istituzioni globali in grado di affrontarne le conseguenze».
Intendiamoci: non si vuole qui negare l’esistenza (e l’influenza) dell’Fmi o del Wto o della Banca Mondiale. Si vuole piuttosto richiamare l’attenzione sul fatto che caratteristica decisiva di ogni potere duraturo è, in effetti, il suo essere intimamente compenetrato di dittatura ed egemonia, e quest’ultima non è conseguibile se non da chi si assume la cura anche delle classi ‘sottomesse’, s’intende nei limiti imposti dai rapporti di forza: fu questa la ragione della ‘durata’ non solo di Bismarck, ma di tutti i regimi totalizzanti (fordismo e stalinismo inclusi) che abbiamo sperimentato nel Novecento. La realtà della globalizzazione è invece quella di presentarsi come processo dai tratti essenzialmente ‘economico-corporativi’, si potrebbe dire con espressione gramsciana: nel senso che organi deputati ad assumere decisioni che abbiano come obiettivo la cura degli interessi generali non ve ne sono. Come ha osservato acutamente Ilvo Diamanti, il G-8 è più luogo di ‘rappresentazione’ che di decisione: «è un rituale, che comunica ai cittadini del mondo (a una parte di essi) che la globalizzazione ha un governo, un tavolo di negoziato, di direzione», mentre la realtà è quella di paesi e gruppi di paesi in contrasto più o meno latente, più o meno manifesto, che ha condotto – viceversa – alla progressiva esautorazione della governance globale che aveva preso piede all’indomani della seconda guerra mondiale e al tendenziale affermarsi di una ‘globalizzazione mafiosa’.
Si tratta di temi sui quali copiosa è stata la riflessione su queste pagine e non voglio tediare il lettore ripetendo cose dette e scritte da altri (e anche da me). Mi preme solo ricordare che non è vero che oggi i «processi di centralizzazione e concentrazione capitalistica hanno assunto un carattere sovranazionale senza precedenti», essendo pari per dimensioni quantitative a quelli esistenti nel 1913, e che non è vero che gli Stati Uniti oggi rappresentino essenzialmente il «motore del processo di globalizzazione» e della «costruzione degli strumenti di governo unipolare e oligarchico del mondo», costituendo piuttosto essi il principale ostacolo alla creazione di una governance globale. Al punto che appare quanto meno azzardato proclamare la «fine dell’imperialismo» in un momento in cui – come ha notato lucidamente Mario Tiberi sullo scorso numero di questa rivista – quella che a uno sguardo distratto potrebbe apparire come la «struttura multipolare» dell’economia-mondo appare invece, sulla base della documentazione empirica disponibile, stratificata in forma «piramidale», con al vertice l’imperialismo a stelle e strisce.
5. Ho già detto che non entrerò nel merito delle ricette politiche che il documento ritiene di poter desumere dalle premesse teoriche e ricostruttive di cui s’è detto. Una battuta, tuttavia, dev’essere consentita, ed è che riecheggiano certe posizioni del «sindacalismo teorico» (altrimenti detto «rivoluzionario»), sulle quali si abbatté la sferzante critica di Gramsci in una celeberrima nota dei Quaderni del carcere, intitolata agli «aspetti teorici e pratici dell’economismo».
Ciò che nelle tesi colpisce, in effetti, è una certa convergenza di giudizio con quella
prospettiva, tipica della cultura neoliberale, secondo cui la «globalizzazione» avrebbe comportato la sopravvenuta inefficacia dell’azione politica, al punto che – recitano le tesi – la «tradizionale funzione mediatoria che lo Stato ha avuto, pur nella sostanziale difesa della società capitalistica, […] tende ad essere sostituita da quella di porsi come migliore garante dell’allocazione degli investimenti del capitale internazionale e della creazione di nuovi terreni per il mercato».
Affermazioni del genere, in un contesto in cui una percentuale pari al 40-60% del Pil delle nazioni industrializzate è dovuta ancora all’azione dei pubblici poteri, sembrano in effetti ignorare che un cospicuo filone di riflessione considera quest’esito (peraltro tutt’altro che consolidato) non già prodotto ineludibile della globalizzazione, ma effetto di precise scelte politiche delle forze che la dirigono. Sicché – per riprendere proprio la riflessione gramsciana di cui si diceva – le tesi finiscono con il dimenticare che, mentre per i liberisti la negazione di qualunque efficacia dell’azione statuale è conseguenza di un preciso programma politico (volto a mutare la distribuzione del reddito nazionale, aggiungeva Gramsci), per chi si oppone allo status quo il misconoscimento delle persistenti possibilità che si aprono all’azione dei pubblici poteri implica l’impossibilità di «uscire dalla fase del primitivismo», di «svilupparsi oltre la fase economico-corporativa per elevarsi alla fase di egemonia etico-politica nella società civile e dominante nello Stato».
In un simile esito, in effetti, consiste il capolavoro ideologico della destra, la quale ha saputo diffondere sentimenti di diffidenza (quando non di rigetto vero e proprio) nei confronti della dimensione politico-statuale, facendo perdere di vista il fatto che i più feroci attacchi al ruolo economico dello Stato sono giunti, almeno nel corso dell’ultimo cinquantennio, proprio dalle classi dominanti.
6. Così stando le cose, sembrerebbe di poter concludere che il documento congressuale possieda tutti i caratteri di una (infondata) fuga in avanti. In realtà, non è così. Non è vero, in altri termini, che esso non abbia dietro di sé un’elaborazione teorica che possa legittimare il suo stesso presentarsi in forma di «tesi». Benché silenziosamente, il suo riferimento principale emerge nitido nella già citata tesi 52, dove si legge della necessità di un ritorno alla «lezione imprescindibile della ricerca marxiana, soprattutto delle opere della maturità (conosciute solo nel nostro secolo)». E’ fin troppo chiaro che qui si allude ai Grundrisse, pubblicati per la prima volta dall’IMEL (Istituto Marx-Engels-Lenin) a Mosca nel 1939. E chi ha sostenuto che i Grundrisse sono «opera della maturità», rispetto ai quali Il Capitale sarebbe «una parte, e non la fondamentale, della tematica complessiva marxiana» è, com’è noto, Toni Negri: l’ultima citazione entro virgolette è sua e si legge a pag. 21 del suo Marx oltre Marx (nuova edizione, manifestolibri 1998; ed. orig. 1979).
A partire da qui, si può percorrere a ritroso l’interio armamentario concettuale delle tesi e verificarne, passo dopo passo, l’ascendenza: è negriana (e tutt’altro che marxiana, come s’è visto) l’idea secondo cui il processo di valorizzazione sarebbe cambiato per effetto della crescente incidenza dello «sfruttamento diretto e indiretto del lavoro immateriale» (cfr. l’introduzione alla nuova edizione di Marx oltre Marx, pp. 7-9); è negriana l’idea che il capitale possa «mettere in valorizzazione» tutte le condizioni sociali, cosicché la società diviene nel suo insieme strumento di accrescimento del plusvalore (cfr. Marx oltre Marx, lezioni 4, 5 e 6); è negriana l’idea del «governo unipolare del mondo» – qui conta davvero poco che nelle tesi non compaia il termine «Impero» – e che questo non sia «semplicemente l’imperialismo americano del dopo-Muro» (cfr. Negri, L’«Impero», stadio supremo dell’imperialismo, “Le Monde Diplomatique/il manifesto”, gennaio 2001); ed è negriana, finalmente, l’idea – che direttamente ne consegue – secondo cui non solo gli Stati sarebbero sostanzialmente privi di qualsiasi potere di comando, ma, come si legge ora in Empire, la politica stessa, in quanto «sfera di mediazione tra forze sociali in conflitto», si sarebbe ridotta ormai a un simulacro.
Ovviamente, non c’è alcun riferimento polemico in queste considerazioni. Si vuole piuttosto sottolineare un duplice problema. In primo luogo, Negri non solo non si nasconde che le sue tesi vanno «oltre Marx», ma dichiara esplicitamente che esse derivano dal rifiuto della nozione marxiana di ‘lavoro produttivo’ (cfr. Marx oltre Marx, pp. 84-85), onde non capisco come si possano conciliare simili posizioni con l’addotta necessità di un ritorno alla lezione marxiana, per giunta purificata «dai marxismi che sono stati edificati nel ’900» (tesi 52).
In secondo luogo, sulla base di queste premesse, Negri e la sua scuola arrivano coerentemente a sostenere che, nel dispiegarsi di un processo di produzione immediato giunto ormai a piena identificazione con la prassi vitale, il capitale genera immediatamente il proprio antagonista (ieri l’operaio sociale, oggi la moltitudine biopolitica), che sarebbe quindi immediatamente dato, senza che vi sia più bisogno di qualsiasi intervento di ricomposizione, organizzazione o direzione. Un ‘partito’, insomma, non serve più. E’ sufficiente un reddito di cittadinanza, anzi un «salario sociale»: ché se anche solo vivendo siamo strumenti di valorizzazione, un salario ci toccherà comunque. E’ forse questo lo sbocco della rifondazione del comunismo? Conclusione che, va riconosciuto, le Tesi di Rifondazione dicono di non accettare.
Post scriptum. Per fortuna, si potrebbe quasi dire, nel documento ci sono due tesi, la 44 e la 45, dove si legge della necessità di un rilancio dell’intervento pubblico nell’economia, di ridiscutere il Patto di stabilità, di nuove politiche pubbliche nei settori dell’energia e dell’ambiente, di un nuovo meridionalismo, di riassetto delle città e dei territori, financo di redistribuzione del reddito.
Che dire? Il fatto che proposte del genere, per quanto minimali, si pongano in aperto (benché inconsapevole) contrasto con i presupposti teorici e ricostruttivi che animano le tesi può solo far sperare che la rotta verso la moltitudine ‘dionisiaca’ cantata da Negri attraverso le metamorfosi del lavoro e la svolta linguistica nella produzione non sia irreversibile.