In principio era la fabbrica. Ora è rimasto il vuoto

Ermanno Rea ci mostra un oggetto poderoso e lucente che custodisce in uno scaffale della libreria: «È un cuscinetto a sfera» ci spiega, accarezzandone la curva perfetta. È, questa scultura d’acciaio, il pezzo d’Ilva che lo scrittore si è portato a casa, nel suo appartamento romano in Borgo. Uno tra i milioni di meccanismi che componevano quel mondo – l’acciaieria di Bagnoli – del quale Rea ha raccontato la fine nel suo bellissimo romanzo La dismissione.
Ermanno Rea, napoletano classe 1927, giornalista (la sua gavetta, ricorda, l’ha fatta nei primi anni Cinquanta nella redazione partenopea dell’Unità. E mentre lo dice negli occhi celesti sembra scorrergli un film di quel passato), poi fotografo, poi scrittore. In libri come Il Po si racconta: uomini, donne, paesi, città di una Padania sconosciuta, L’ultima lezione, Mistero napoletano, Fuochi fiammanti a un’hora di notte, ha dimostrato di appartenere a quella specie di narratori – curiosi del mondo – che usano il romanzo come strumento per conoscere. Nella Dismissione è un mondo intero, appunto, che indaga e del quale ci restituisce uno straordinario affresco: l’acciaieria nata in quello che, prima, era un angolo del golfo frequentato da villeggianti e pescatori, su impulso del libro-manifesto pubblicato nel 1903 da Francesco Saverio Nitti, Napoli e la questione meridionale. Un colossale impianto siderurgico che, dentro e intorno a sé, avrebbe figliato una società: all’interno, con la sua organizzazione del lavoro, ruoli, gerarchie, legami; alle sue propaggini, la piccola città dove vivevano operai, tecnici, dirigenti e le loro famiglie. Un mondo, spiega, diverso dalla fabbrica fordista con la catena di montaggio: perché ha radici arcaiche («l’uomo fonde i metalli dalla notte dei tempi» osserva) e perché è un’impresa che pretende solidarietà e stimola all’orgoglio del mestiere. Racchiuso nei 1.150 vassoi in metallo, 160 centimetri per 60 – l’archivio – che racchiudevano storie di dipendenti, resoconti di carriere, brogliacci di spie interne, lettere di vedove di morti sul lavoro. Un mondo finito – racconta il romanzo – in modo impossibile da digerire: dopo una ristrutturazione costata 1.000 miliardi di lire, quando i conti produttivi erano tornati in attivo. Aprendo le porte di Bagnoli alla camorra e alla minaccia della speculazione edilizia. Levando lavoro, identità, sicurezza, alle 150.000 persone che gli ruotavano intorno. Senza restituirgli, finora, niente in cambio.
Ora che parliamo, con Rea, della Dismissione, ci vengono in mente due versi – di chi erano? la memoria in questo non ci aiuta – che in francese suonavano così La verité du fer est la rouille, la verité de l’homme est la mort, cioè: la verità del ferro è la ruggine, la verità dell’uomo è la morte.
Ecco, Rea – e ci diamo del tu visto che in comune abbiamo il lavoro per questa testata – tu racconti la morte dell’Ilva. Lo smontaggio dell’impianto cominciato nel 1990 e durato più di un decennio. Nel narrarne l’agonia ne ricostruisci la vita: cos’era, l’Ilva, quale abilità e coraggio pretendeva da chi ci lavorava, di quali storie umane è stata teatro, responsabilità e cinismo, solidarietà e crumiraggio. Era un bilancio, quello che avevi in mente nello scrivere «La dismissione»?
«Sì. Nel ’99 sono andato in visita allo stabilimento, mentre era in corso, appunto, la dismissione. Un’impresa durata un tempo così lungo, napoletano: Napoli è il trionfo della lentezza. L’ex fabbrica era ancora piena di operai, settecento forse. Celebravano questa specie di rito: la fine di una fabbrica, un’epoca, una prospettiva. Io giravo fin lì con un’attitudine da turista: mi spiegavano “questo pezzo andrà via, questo sarà custodito come reperto di archeologia industriale”. A un certo punto vidi una gru che acchiappava un’intera ciminiera del treno di laminazione: dondolava, immensa, come presa per il collo. Mi dissero che era stata venduta e doveva arrivare in Thailandia. E mi resi conto che quello che vedevo era, ecco, come se un giorno dal cielo calassero qui delle gru e spostassero in blocco questo quartiere, le strade intorno e il Vaticano, in qualche località dell’Asia. Mi sono trovato di fronte a un fatto mio personale: quello sfarinamento era la fine di tante illusioni».
Cos’è stata per te, napoletano e militante del Pci negli anni Cinquanta, l’Ilva?
«La fabbrica, nella Napoli del dopoguerra, era un grosso problema. L’Ilva era la locomotiva dell’apparato industriale. E la realtà più discussa. Il fatto che occupasse una delle aeree più belle del golfo era un problema antico. Luigi Cosenza, l’urbanista che poi avrebbe costruito l’Olivetti, già nel piano regolatore del 1946 prevedeva che venisse delocalizzata. Noi giovani, anche i più sensibili al paesaggio, dicevamo però “no, deve restare lì, per la sua funzione salvifica nei confronti della città. La fabbrica deve entrare nel vicolo e bonificarlo”. Comunisti, riprendevamo quelle parole del liberale illuminato Nitti. Era un inferno a vedersi. Ma pure quei bagliori, di notte, avevano una loro rara bellezza. L’Ilva ha avuto una funzione straordinaria di presidio democratico. È la sola fabbrica al mondo nata con un intento salvifico: doveva addirittura sconfiggere la camorra. Io sono tuttora convinto che le piaghe di Napoli nascano dalla cultura dell’arrangiarsi, dalla mancanza di rigore, di quel pizzico di giacobinismo senza il quale una città meridionale non ha speranza. La fabbrica, quindi, come scuola di etica civile e legalità».
Vincenzo Buonocore, il protagonista del romanzo, incaricato dello smontaggio di una parte dell’impianto, le colate continue, decide che quest’impresa – quest’addio – sarà, per ordine e precisione, il suo capolavoro. La sua ossessione è una metafora dell’etica di cui parli?
«Nel mio romanzo è tutto vero e tutto falso: le cronache dello smontaggio dell’impianto, i nomi di dirigenti e sindacalisti, sono reali, ma poi mi sono divertito a lavorare d’invenzione. Buonocore è una figura immaginaria che porta, sì, quell’idea agli estremi limiti».
Il tecnico Buonocore parla, di queste sue colate, come d’una donna di cui sia innamorato. Le fotografa, le disegna, ne accarezza con la mente la perfezione. Il lavoro può essere raccontato proprio come un amore?
«La passione può esprimersi in forme diverse. Se c’è, colora l’esistenza. Le travi portanti di una vita sono il lavoro e i grandi affetti. Uno scrittore ama i suoi strumenti, la penna, la carta, l’odore dei libri. Un operaio può amare il proprio impianto».
Nel romanzo arrivano – come una specie aliena – i cinesi. È la delegazione incaricata di portare via le colate. Sembrano formiche che svuotano, diligenti, un mucchio di briciole.
«La circostanza è obiettiva: per disposizione dell’Unione Europea i pezzi dell’Ilva non potevano essere rivenduti ad altri paesi europei. Perciò sono arrivati a comprarli dall’India, dalla Thailandia, dalla Cina. È un segno dei tempi, questa fabbrica che si liquefa in frammenti che vanno dappertutto. Una specie di globalizzazione rovesciata. E una fabbrica come quella, in dismissione, suscita avidità. È un bel porco di cui non si butta via neppure un pezzo».
Chung Fu, contraltare cinese di Buonocore, dice: «La civiltà occidentale è fondata sull’acciaio». È un tramonto di civiltà, allora, che racconta il tuo romanzo? Ma, se è questo, non è anche un tramonto ineludibile? Bagnoli, senza l’Ilva, non diventerà, come s’è detto, un «paradiso post-industriale»?
«Il Novecento è la civiltà dell’acciaio: pensa alle automobili. Che la civiltà industriale sia finita, ne dubito. Ci piace troppo celebrare i de profundiis. Se mi guardo intorno, vedo infiniti beni di consumo che vengono fabbricati. Abbiamo esportato Marx in Asia, ma non vuol dire che sia finita. L’Ilva, lo pensavamo tutti, che dovesse essere chiusa prima o poi. Ma non in quel momento e in quel modo: quella è l’infamia. Appunto, dicevamo però, il mio romanzo è un bilancio, non indovina il futuro, racconta un vuoto, quello di adesso. E un pieno, il mondo che a Bagnoli c’era prima».