Ha ragione Valentino Parlato. La situazione che si è venuta a creare dopo la defezione dell’Udc e dei nuovi socialisti dal governo è delicata e densa di incognite. C’è anche un rischio: che si pensi che l’epilogo della crisi sia già scritto, che un destino benevolo ci protegga, che sia sufficiente attendere, comodamente seduti sulla sponda del fiume come il vecchio del proverbio cinese, per assistere all’inevitabile catastrofe dell’avversario.
Non è così. O per lo meno non è detto che sia così. Sul fatto che la destra sia in crisi non c’è dubbio. La Casa delle Libertà, che sino alla débâcle elettorale poteva sembrare ancora salda, è teatro di una guerra intestina senza esclusione di colpi. La leadership di Berlusconi è tramontata irreversibilmente. Ma da questo a pensare che la destra toglierà il disturbo senza colpo ferire ce ne corre, come dimostra l’andamento “irrituale” della crisi.
Il presidente del Consiglio farà di tutto per recuperare il terreno perduto. Userà il denaro pubblico come arma elettorale. Proverà a forzare sul terreno delle “riforme”. Stringerà d’assedio quanti ha beneficato in questi anni, pur di ottenerne il sostegno. Il Paese rischia di essere sottoposto a un crescendo di iniquità e illegalità. Dinanzi a questo panorama, le opposizioni dovrebbero incalzare, cercare di costringere il governo a sloggiare al più presto. Invece aspettano.
Attendono, sulla base di un calcolo azzardato: «lasciamoli fare, non potranno che peggiorare la situazione, sino a determinare la propria rovina». È un atteggiamento, tra l’inerte e il fatalistico, che preoccupa, anche se non meraviglia. Non è andata poi molto diversamente durante quest’ultimo quadriennio. In fondo non hanno torto quanti osservano che il 3 e 4 aprile non è tanto il centrosinistra ad aver vinto, quanto il centrodestra ad aver perso. Questa inerzia non meraviglia soprattutto da parte delle forze moderate dell’opposizione, che hanno tutto da guadagnare se la temperatura politica del Paese resta bassa. L’ideale, per queste forze, sarebbe un cambio della guardia all’insegna del fair play, per poter ricominciare il lavoro intrapreso nei gloriosi anni Novanta. Comprendiamo più a fatica, invece, questa condotta attendista da parte delle forze più avanzate, a cominciare dai partiti della sinistra di alternativa, che pure avrebbero tutto l’interesse di dare risposte forti e chiare alla domanda di cambiamento. E che dovrebbero sapere che i governi si battono nel Paese, prima che nel Parlamento.
Ad ogni modo, la conclusione del ragionamento di Parlato è ineccepibile. In una situazione bloccata, nella quale la politica sembra aver perso la voce, la voce deve tornare alla mobilitazione democratica, al protagonismo di quel «popolo della sinistra» al quale talvolta si tributano omaggi formalistici. Tanto più che qui non c’è di mezzo soltanto un governo che sopravvive alla propria morte politica. C’è anche la necessità di porre precise ipoteche sul governo che domani (speriamo) gli succederà.
Mobilitarsi, dunque. Il riferimento obbligato, in questi giorni, è il 25 aprile. Per svariate e tutte rilevanti ragioni. Per i rigurgiti di fascismo che segnano questi tempi: il revisionismo trionfante, i raduni di camerati ed Ss, le croci uncinate negli stadi e sulle lapidi ebraiche, la riabilitazione dei repubblichini. E per l’insulto alla Costituzione antifascista, nella quale la Resistenza dichiara le proprie ragioni. La centralità del lavoro, i diritti sociali, la partecipazione democratica, l’equilibrio tra poteri indipendenti: troppo per chi ha nostalgia di regimi oligarchici e concepisce la politica come dominio e come appropriazione privata del pubblico.
Il 25 aprile di quest’anno è un giorno particolarmente importante. È il 60° della Liberazione, e cade in un anno che ha visto un attacco alla Costituzione repubblicana di inusitata violenza (come dimostra lo stesso andamento della crisi, gestita dal presidente del Consiglio come se fosse in corso una partita a due – tra lui e «il popolo» – senza che il Parlamento e il Quirinale debbano metterci becco). Andiamo dunque in piazza tutti. Contro questo attacco, e per affermare che il ricordo della Resistenza sta alla base di quel che vorremmo fosse questo Paese. Torniamo quanto più numerosi lunedì a Milano, capitale della lotta partigiana. Come già undici anni fa, quando mandammo a casa una prima volta l’on. Berlusconi. Scuotiamo questo silenzio surreale al quale potremmo rischiare di assuefarci.