In palio c’è più del Perú

Il processo elettorale che sta per concludersi in Perù è stato assai inusuale, anche per gli standard politici della storia del paese: 22 candidati alla presidenza della repubblica e più di 3000 per un Congresso nazionale che conta appena 120 seggi. Non c’è quindi da sorprendersi se il primo turno del 4 aprile non ha sancito l’elezione del presidente e sia necessaria oggi un ballottaggio, per eleggere uno dei due candidati che hanno ottenuto la maggioranza relativa: Ollanta Humala Tasso, dell’alleanza tra Union por el Perù e il Partito Nazionalista e Alan Garcia Perez, dell’Apra. Né c’è da stupirsi che siano stati necessari ben due mesi per conoscere, ufficialmente, i nomi dei nuovi 120 parlamentari.
Tale proliferazione di candidature non è accidentale né incidentale. Deriva, in primo luogo, dal fatto che l’economia è stata completamente «riprimarizzata» e terziarizzata con il neo-liberismo spinto di Fujimori e associandosi alla drastica concentrazione di ricchezze da parte dei nuovi ceti medi professionali e tecnocrati, emersi dalla disintegrazione dello stato oligarchico e dall’urbanizzazione della società. Questi fenomeni hanno trasformato lo Stato nell’unico spazio capace di fornire ricchezza, status sociale e affari, per chiunque non voglia piegarsi a lavorare nell’economia informale, o non scelga di emigrare. In secondo luogo, che i settori la cui ascesa sociale si è trovata bloccata da queste condizioni, sono spinti a trasformare le loro ambizioni sociali in progetto politico. La speranza di essere il nuovo outsider fortunato, dopo le esperienze di Alberto Fujimori e di Alejandro Toledo, può anch’essa aver giocato un ruolo nella scesa in campo di vari altri candidati alla presidenza.
Chavez nel gioco elettorale
Abbiamo poi dovuto eleggere i nostri rappresentanti al cosiddetto parlamento andino, della Comunidad andina de naciones (Can) – di cui fanno parte Bolivia, Colombia, Ecuador, Perù e Venezuela, dopo il ritiro del Cile per decisione di Pinochet – peraltro in via di dsigregazione dato il ritiro del Venezuela per l’improvvisa decisione del presidente Hugo Chavez, proprio durante il processo elettorale peruviano, come rappresaglia per la decisione dei governi di Colombia e Perù di firmare Trattati di libero scambio con gli Stati uniti.
Questi trattati sono questioni cruciali nel dibattito politico di questi paesi e, naturalmente, sono entrati a far parte della contesa elettorale. Nel caso peruviano, solo la minoranza che ne beneficia li ha accettati senza porre questioni. Tra gli altri, quella parte della popolazione che appoggia la candidatura di Ollanta Humala li respinge e chiede che la questione sia sottoposta a un referendum popolare. Coloro che appoggiano la candidatura di Alan Garcia reclamano, come precondizione dell’accordo, che vengano garantiti indennizzi ai contadini che in vario modo saranno colpiti negativamente dall’accordo stesso. Tutto ciò indica, ovviamente, che queste elezioni non sono solo peruviane, dal momento che in esse sono entrati in gioco attori politici esterni. L’unico ad averlo fatto in modo diretto e esplicito è il presidente del Venezuela Hugo Chavez che, oltre a ritirare il suo paese dalla Can, non ha smesso di insistere, contro ogni norma e forma degli accordi inter-governativi dei paesi dell’Organizzazione degli stati americani (Osa), a fare pressioni pubbliche sugli elettori peruviani affinché votassero Ollanta Humala, ricorrendo frequentemente all’insulto contro il suo rivale Garcia e contro lo stesso presidente Toledo. Questi fatti danno la misura delle tendenze di cambiamento nella mappa politica latino-americana, associate alla deligittimazione del neo-liberismo e all’impantanamento degli Stati uniti nella guerra coloniale in Iraq e in Afghanistan.
Durante questo processo elettorale, in Perù non si è discusso di alcun progetto politico che mettesse in questione i rapporti di potere esistenti, né la struttura della società e dello stato.
Se si fa il confronto con le elezioni in Bolivia e in Ecuador, la differenza è senz’altro notevole. In questi paesi è in gioco lo stesso carattere di Stato, riconosciuto alla fine dall’immensa maggioranza della popolazione come non rappresentativo delle varie nazionalità o etnie e, di conseguenza, come uno Stato coloniale. Queste popolazioni non stanno chiedendo «più Stato», ma un altro Stato, multi-nazionale, multi-culturale o, soprattutto in Ecuador, inter-nazionale e inter-culturale. E queste sono questioni dibattute apertamente e pubblicamente. I «movimenti indigeni» di questi paesi sono diventati attori politici decisivi. Se Evo Morales non ha certo vinto le elezioni in Bolivia in quanto candidato degli «indigeni», ma di un Movimiento al Socialismo, ciò non gli sta impedendo di proporre, esplicitamente, un cambiamento del carattere nazionale dello Stato, come avverrà con le decisioni dell’Assemblea costituente. E, come è ovvio, questo movimento dà alla «nazionalizzazione» delle risorse energetiche un significato nuovo, per quanto ancora aperto al dibattito e all’esperienza.
In Ecuador, le candidature e le alleanze politiche per le prossime elezioni si discutono in riferimento al «movimento indigeno», e già è entrata in scena la candidatura di Luis Macas, principale leader della Conaie, che unisce tutte le organizzazioni indigene del paese.
Il fallimento del neo-liberalismo
In Perù, invece, tutti danno per scontato che esiste una «nazione peruviana» e il suo rispettivo «Stato nazione», per quanto sottomesso al dominio imperialista. Tuttavia, e nonostante tutte le sue importanti differenze con gli altri paesi «andini», il Perù è uno dei casi più lampanti del fallimento del progetto liberale euro-centrico di un moderno Stato-nazione, precisamente perché i suoi difensori hanno impedito la distruzione di una base di potere la cui condizione imprescindibile è la colonizzazione. La colonizzazione del potere è, in maniere e forme diverse, comune non solo ai paesi andini, ma a tutto l’insieme dell’America latina.
I candidati che si affrontano nel secondo turno di oggi sono estranei a questo dibattito. Ollanta Humala, ritiratosi dall’esercito peruviano con il grado di maggiore, capeggia una corrente che si definisce «nazionalista». Una parte dei voti che ha raccolto al primo turno proviene dalle popolazioni della Sierra del Sur e del centro del paese, dove si concentra la maggior parte di coloro che sono identificati e cominciano essi stessi a identificarsi come «indigeni». Ma nulla nel suo programma accenna a tale questione, salvo in termini di «razza», ossia dalla stessa prospettiva coloniale eurocentrica. Anche Alan Garcia Perez, candidato della «socialdemocrazia» (leggermente favorito nei sondaggi), ignora questa questione. Per entrambi, si tratta semplicemente di zone e popolazioni molto povere, che si sentono ovviamente discriminate ed escluse. È necessario a questo proposito ricordare che la maggioranza degli elettori di Fujimori e Toledo provenivano precisamente da quelle zone. E che Toledo è stato il primo a usare le sue origini «razziali», come argomento elettorale in tali regioni.
Tanto Garcia che Humala si riconoscono e sono riconosciuti come «non-neoliberisti». Pertanto, i loro programmi non sono tanto differenti, eccetto nell’enfasi dei «nazionalisti» su una maggior presenza dello Stato, carattere principale del loro «nazionalismo». Per entrambi, deve essere mantenuta la stabilità fiscale e monetaria, e soprattutto la stabilità macro-economica, la libera circolazione di capitali e i tassi di interesse conseguiti durante il governo in carica come condizione per raggiungere tassi di crescita più alti (7%) nei prossimi anni e per poter predisporre una ridistribuzione parziale delle ricchezze. Questa relativa convergenza di proposte segnala, in primo luogo, che l’egemonia del neo-liberismo sta terminando nel paese, sia pur con ritardo rispetto al resto del Sudamerica. Secondo, che entrambe le candidature, lungi dall’essere progetti di cambiamento di potere, mirano a presentarsi entrambe (forse più esplicitamente nel caso dei «nazionalisti») come la più efficace amministrazione «non-neoliberista» del capitale. Cioè, una candidatura adatta per ridurre al concentrazione delle ricchezze, non solo in termini sociali, ma anche a livello di spazio regionale.
Non è in discussione la struttura del potere in Perù. Gli stessi aggiustamenti che verranno apportati dal presidente che verrà eletto oggi non saranno drastici. Ma un cambiamento è già palpabile: nuovi settori sociali sono entrati a far parte di quella che la stampa chiama «classe politica», con tutto ciò che ne consegue in questo povero e martoriato paese.

*Sociologo peruviano