«In Kosovo vacilla l’Europa»

Si apre oggi a Roma la Conferenza sui Balcani e sullo status finale del Kosovo del governo italiano. Su questa crisi, che preoccupa i ministri degli esteri europei che temono una «tempesta» tanto da convocare un vertice il 26 gennaio a Bruxelles, abbiamo rivolto alcune domande al generale Fabio Mini, ex comandante Nato della Kfor dal 2002 al 2003 e esperto di Balcani.
Da diverso tempo lei va ripetendo che i Balcani sono, adesso, una polveriera…
Ciò che caratterizza i Balcani è la mancanza quasi assoluta di volontà di sopportazione reciproca fra le varie componenti politiche e sociali. I signori della guerra e della droga in Afghanistan possono trovare sempre un punto d’incontro, magari negli interessi illeciti, per evitare la guerra civile. Curdi, Sunniti e Sciiti si sono sopportati per secoli prima di Saddam e la guerra civile irachena non è mai stata un’opzione di nessuna delle varie componenti. Ci è voluto l’intervento occidentale perché lo diventasse. Anche in Iraq e perfino in Libano gli interessi politici ed economici possono tenere assieme le varie parti. Basta trovare un punto di equilibrio. Nei Balcani l’equilibrio non solo è particolarmente difficile, ma non è ricercato né dagli attori locali né da quelli internazionali. Anzi è sempre stata perseguita la divisione e l’alimentazione dell’odio e dell’instabilità trasferendo al livello interstatale l’intolleranza etnica. Questo è ciò che succederebbe anche per la questione del Kosovo se non fosse trovata un’intesa politica condivisa. Con l’imposizione esterna di uno status qualsiasi si getta il seme per una nuova crisi e si crea un precedente giuridico destinato a scardinare il sistema degli «Stati sovrani» sul quale si basa la comunità internazionale. Per questo ritengo i Balcani più che mai una polveriera sulla quale distinti signori in doppiopetto stanno tranquillamente discutendo brandendo sigari accesi.
Che cosa è accaduto in Kosovo in questi sette anni dopo la conclusione della guerra «umanitaria». Anni nei quali i governi occidentali hanno guardato da un’altra parte. Come se non ci fossero mai stati né i 78 giorni di bombardamenti sull’ex Jugoslavia (Kosovo compreso), né la pace di Kumanovo del giugno ’99, fatta propria da una risoluzione, la 1244, del Consiglio di sicurezza Onu che, ponendo fine alla guerra, prevedeva l’ingresso temporaneo delle truppe Kfor-Nato e la riconsegna a Belgrado dopo sei anni del territorio. L’ex ambasciatore jugoslavo Miodrag Lekic si è chiesto se quella guerra non si sia conclusa «con un imbroglio»…
In questi sette anni in Kosovo si sono avvicendati vari tipi di fumatori di sigaro. Alcuni pericolosamente consapevoli e altri altrettanto pericolosamente inconsapevoli. La comunità internazionale, di fronte alle crescenti evidenze di manipolazione della crisi kosovara in funzione di una guerra già decisa, ha preferito ignorare i problemi e non approfondire le cause e le dinamiche della repressione nazionalista serba. Per oltre un decennio ha ignorato le nefandezze serbe e non ha neppure voluto considerare le poche voci che si sono levate a denunciare le nefandezze kosovaro-albanesi. Non concordo con la «tesi dell’imbroglio». La Serbia è sempre stata consapevole delle richieste kosovare d’indipendenza. Sapeva anche che l’insurrezione armata avrebbe portato all’indipendenza e che i massacri e le repressioni avrebbero solo peggiorato le cose, come in Croazia e Bosnia. Sapeva bene che i vari negoziatori di professione avevano già in mente una Dayton per il Kosovo, e che una maggiore determinazione internazionale sul piano diplomatico e militare avrebbe potuto strappare l’indipendenza del Kosovo, non per decisione del Consiglio di sicurezza, ma per «concessione» della stessa Serbia. Sapeva anche benissimo che la risoluzione del Consiglio di Sicurezza non aveva voluto riconoscere l’indipendenza del Kosovo per evitare il veto russo e cinese e per non creare un problema giuridico allo stesso principio fondatore delle Nazioni Unite. Sapeva perciò che la formula scelta per la risoluzione era un compromesso, ma non un regalo alla Serbia. Era un modo per prendere tempo e per dare tempo al Kosovo e alla Serbia di venire ad un accordo. Né la Serbia né il Kosovo hanno tratto profitto da questa opportunità e, allora sì, entrambi, aiutati dall’indifferenza e dalla superficialità di tutti, hanno «imbrogliato» la comunità internazionale.
Come giudica lo strabismo dell’Onu che, da una parte, con il Consiglio di sicurezza hanno condannato la contropulizia etnica, dall’altra con l’amministrazione Unmik l’hanno di fatto autorizzata e legittimata?
Il Consiglio di Sicurezza, mentre si discutevano gli accordi militari di Kumanovo tra il comandante Nato e i Serbi, ha dovuto prendere atto della situazione. Il rischio di contropulizia etnica era concreto ed erano già cominciate le vendette dell’Uck che assumeva il controllo del territorio mentre le truppe Nato erano ancora in Macedonia. Gran parte dei serbi ancora rimasti in Kosovo dovettero fuggire abbandonando case, lavoro e proprietà. Le popolazioni Rom, Ashkalia, Gorani, Egyptian, che per il solo fatto di parlare serbo erano considerate «collaborazioniste», non ebbero tale opportunità e dovettero sopportare repressioni anche più dure. La responsabilità del Consiglio di Sicurezza e della Nato di non aver saputo o voluto evitare tali crimini è grande, ma in parte giustificata dall’impegno di assumere il controllo del territorio in regime di legalità e quindi soltanto dopo la firma degli accordi, l’accordo sulla risoluzione ed il ritiro delle truppe serbe. Più grave è invece la responsabilità di Unmik che ha deliberatamente formulato una politica che limitava i rientri dei rifugiati, che non ha salvaguardato le proprietà individuali, che non ha preservato le fonti di lavoro e di energia e che ha favorito le faide interne o quelle interetniche rendendo così impossibile il ritorno alle proprie case dei serbi kosovari a sud dell’Ibar e dei kosovaro-albanesi a nord.
Si parla di Kosovo come di «stato delle mafie», di «stato della droga» e di stato della «burocrazia internazionale» che lucra sull’ipermercato umanitario delle Ong, mentre a Pristina, «miracolata dalla guerra», sono arrivati a pioggia miliardi di euro spariti nel nulla…
Le espressioni «stato mafia», «stato fallito», o «stato della droga» sono prospettive negative di possibili scenari futuri, non realtà attuali. Sia perché il Kosovo non è uno «stato» sia perché in Kosovo esistono forze serie e veramente dedicate allo sviluppo, alla democrazia e alla pace. Il problema è che queste energie, ancorché espresse dalla maggioranza della gente, sono minoritarie nei luoghi del potere ed hanno bisogno di tutto il supporto internazionale per prevalere su quelle dedicate allo sfruttamento dell’instabilità e dell’indeterminatezza. L’espressione «burocrazia internazionale» è invece una realtà concreta. Anche qui bisogna distinguere i buoni dai cattivi e separare la buona burocrazia che tende al rispetto dei piani e delle procedure di trasparenza da quella cattiva per incapacità o fini criminali. Ma è in questo mix di incapacità e criminalità che sono finiti i miliardi. La miscela delle oligarchie deviate e della cattiva burocrazia alimenta la probabilità degli scenari negativi e fornisce un cattivo esempio anche per quelle forze giovani e volenterose che vorrebbero una svolta.
La comunità internazionale ha rimandato il riconoscimento dell’indipendenza a dopo le elezioni del prossimo 21 gennaio in Serbia – dove la nuova Costituzione sancisce che il Kosovo «è parte irrinunciabile della nazione». Sono immaginabili forti proteste, sia che venga concessa sia che venga rimandata o negata? E nei Balcani che accadrà?
Non vedo scenari, dell’immediato «dopo status», catastrofici. Ci saranno dimostrazioni e prese di posizione estremiste, ma penso che la Serbia non correrà il rischio di tagliarsi per sempre fuori dall’Europa per il Kosovo. Vedo nello stesso preambolo della costituzione serba la voglia di ribadire in forma solenne e «statuale» la propria sovranità sul Kosovo proprio per giustificare una eventuale controversia giuridica internazionale piuttosto che uno strumento per infiammare la piazza. Anche l’eventuale dichiarazione unilaterale d’indipendenza kosovaro-albanese può essere un modo interlocutorio per continuare a discutere e pervenire ad una soluzione concordata. Purchè la stessa comunità internazionale non l’avalli per convinzione o ricatto e capisca che c’è ancora bisogno di discutere per dare soluzione concreta ai problemi veri della gente sia serba che albanese o di qualsiasi altra etnia. Il caso peggiore è perciò la cristallizzazione da parte della comunità internazionale di una posizione o imposizione estrema qualsiasi: l’indipendenza, l’autonomia, la mezza indipendenza, la cantonizzazione e così via. Con un irrigidimento internazionale si possono innescare tutte le reazioni peggiori, dalla sollevazione, all’invasione o alla sistematica destabilizzazione di tutta l’area. E oltre.
Il governo italiano è in prima fila, anche perché ha contingenti nei Balcani. Quale dovrebbe essere il ruolo dell’Italia?
Favorire la ripresa di una soluzione concordata questa volta portando allo stesso tavolo i responsabili delle due parti per parlare di status e non di carte d’identità o di targhe automobilistiche. Bisogna anche che l’Italia spinga l’Europa, non solo per accontentare chi grida più forte, assegnare altri miliardi o condurre altre infinite missioni militari, ma per stabilizzare i Balcani. Marten van Heuven, un analista d’intelligence che ha commentato i rapporti informativi segreti sulla Jugoslavia dal 1948 al 1990 di recente declassificati dal Dipartimento di Stato Usa, ha giustamente osservato che «Finchè i Balcani sono instabili, l’Europa rimane instabile». Se l’Italia tiene veramente all’Europa deve «stanare» chi intende tale osservazione come auspicio o come policy e lavora per l’instabilità dei Balcani.
A questo punto è legittimo interrogarsi sui risultati reali della guerra Nato del 1999?
E’ legittimo e doveroso. Siamo noi stessi, noi soldati, a chiedere perché e per chi dobbiamo morire e ammazzare. Ma dobbiamo anche interrogarci sul dopo guerra. Su chi lo gestisce, come lo gestisce e in nome di cosa.
La guerra venne motivata dai leader della Nato in chiave umanitaria (difesa dei profughi e contro la pulizia etnica). Ora emerge che quel conflitto, al di fuori di ogni autorizzazione del Consiglio di sicurezza e deciso da un’allenza militare (la Nato, oltre il suo mandato di difesa, almeno fino a quel momento), preparava un’altra indipendenza etnica. Non le sembra un pericoloso precedente, viste le tante crisi internazionali con indipendenze rivendicate, profughi e pulizie etniche?
Potenza della disinformazione! Non so quanti leader dei paesi Nato del 1999 fossero a conoscenza della reale situazione e forse non si sarebbero sbracciati nel sostegno alla guerra se avessero saputo che preparava lo smembramento della Serbia, anche se essi avevano sostenuto quello della Jugoslavia. Non so quanti si rendessero conto del vaso di Pandora che si stava aprendo. La Russia stessa non ha assunto una posizione forte ed è poi intervenuta a fianco della Nato, così come si è sganciata dopo tre anni, quasi a dimostrare la propria indifferenza. Devo riconoscere che alcuni politici italiani (tra cui il ministro Dini) avevano subodorato qualcosa a Rambouillet, ma le inaccettabili pretese di Milosevic e i tentativi di pulizia etnica erano reali. Purtroppo la questione è stata posta solo in bianco e nero: bisognava scegliere tra una posizione debole che avrebbe dato forza a Milosevic ed una posizione forte che l’avrebbe abbattuto. Non è stato fatto alcuno sforzo per trovare altre soluzioni che accogliessero le legittime aspirazioni del popolo kosovaro albanese senza incorrere in conseguenze ingestibili o compromettere l’intero quadro internazionale. Oggi si può solo trarre un insegnamento: dobbiamo saperne di più, dobbiamo informarci e informare meglio e dobbiamo adottare una politica di equilibrio ma soprattutto di coerenza. Quello che vale per una crisi deve valere anche per l’altra. Bisogna poi ponderare meglio le conseguenze degli interventi militari di qualsiasi tipo e chiedersi se si è in grado di gestirle: prima d’intervenire.