In Italia stanno tagliando i salari

Il potere d’acquisto dei salari in Italia si sta riducendo con la complicità di governo e sindacati. A lanciare l’accusa è Augusto Graziani, docente di Economia pubblica all’Università La Sapienza di Roma, che accoglie in modo scettico anche i dati sulla crescita dell’occupazione forniti dall’Istat. Le statistiche ci dicono che negli ultimi anni il potere d’acquisto delle retribuzioni in Italia è diminuito. Esiste nel nostro paese una questione salariale? Certo, perché da quando è stata soppressa la scala mobile l’aumento dei prezzi non si riflette più in alcun aumento dei salari. Tutto è affidato alla ricontrattazione e quindi anche eventuali adeguamenti avvengono con grande ritardo. Inevitabile che il potere d’acquisto dei salari cada, calo moderato solo dal fatto che l’inflazione oggi è un po’ più bassa che in passato. E però non è stata affatto eliminata. In base agli accordi del luglio ’93, i rinnovi contrattuali vengono fatti sulla base del tasso d’inflazione programmata. Che, come è noto, è attualmente di un punto più basso del tasso d’inflazione reale. Ciò determina per i salari una differenza in negativo che non viene mai recuperata. C’è a tuo avviso un problema di politica sindacale dietro questo andamento al ribasso delle retribuzioni? E’ evidente perché così è escluso qualunque automatismo, tutto è affidato alla forza contrattuale del momento. Che poi, oltretutto, si esplica con ritardo e quindi tutto quello che si è perduto ormai non si recupera più. La chiamano politica dei redditi… Non vi è nessuna ragione per attuare questa riduzione dei salari in maniera indiretta. Perché l’andamento del livello dei prezzi è al di fuori di qualunque controllo da parte dei sindacati e quindi è un modo, come dire, “subdolo” per ridurre i salari. Ma la strategia di riduzione dei salari non diventa controproducente anche per le imprese nel momento in cui va a incidere sui consumi? Questo è discutibile. Certamente incide sui consumi, ma se i profitti delle imprese vengono spesi in investimenti corrispondenti la domanda globale evidentemente non cade. C’è una redistribuzione dai salari ai profitti. Uno dei fattori che ha determinato questa corsa al ribasso dei salari è stata la globalizzazione dell’economia. Gli imprenditori italiani, in particolare, sembra che guardino più al “modello Taiwan”, a competere cioè sui mercati confidando più sui bassi costi di produzione che sulla qualità dei prodotti Questa è una debolezza dell’industria italiana, che sul piano tecnologico non è in grado di competere con i paesi veramente avanzati e quindi deve fare una competizione di prezzo. Questa è un’antica debolezza e non sembra che per il momento l’industria italiana se ne sia resa conto. E se se n’è resa conto, non riesce a prendere provvedimenti per risalire la china. Mentre invece, secondo lei, dovrebbe essere proprio questa la strada da intraprendere… Se un paese come l’Italia si vanta di essere tra le prime cinque potenze industriali del mondo, è evidente che dovrebbe collocarsi tra le potenze avanzate e non tra i paesi in via di industrializzazione. C’è il problema dei salari bassi ma anche di tanti che, non avendo un lavoro, sono privati del diritto ad avere un reddito. Che ne pensa di forme di sostegno per i giovani disoccupati? Sono favorevolissimo in linea di principio al salario minimo garantito, però in una economia sostanzialmente di piena occupazione, in cui questo salario si applica per periodi transitori, come tampone di una situazione fondamentalmente sana. Secondo l’Istat, il tasso di disoccupazione in Italia è sceso sotto il 10%. Il ministro del Lavoro Salvi e il leader della Cgil Cofferati hanno interpretato questo dato come una conseguenza delle politiche seguite fin qui da governo e sindacato. Nascondendo però che gran parte dei posti di lavoro creati sono ancora precari, frutto di contratti a tempo determinato o interinale. C’è un legame tra le basse retribuzioni e la flessibilità dilagante? Certamente, soprattutto per chi rimane precario. Anche se i dati che sono stati presentati direbbero che siamo di fronte a una riduzione di queste assunzioni precarie. Questo lo vedremo in seguito. Vedremo cosa? Vedremo se il fenomeno si protrae o se è soltanto transitorio. Da dove nascono i suoi dubbi? Io dico: qui mancano le disaggregazioni regionali. Allora, io non ho difficoltà a credere che nel centro-nord l’occupazione cresca, come anche la stabilità dell’occupazione, perché sappiamo che lì ci sono le regioni che hanno il tasso di occupati più alto d’Europa. Però, poi, abbiamo tante altre regioni in cui è vero esattamente il contrario, per cui il dato sintetico nazionale è più ingannevole che istruttivo. Nel frattempo notiamo che aumenta la forbice salariale all’interno del lavoro dipendente Ormai da anni c’è una disuguaglianza crescente nella distribuzione dei redditi. E questo accade non solo nel nostro paese. In tutti i paesi Europei e tanto più negli Stati Uniti è il frutto di questa liberalizzazione, deregolamentazione, privatizzazione crescente. Vengono meno le tutele da tutti i punti di vista e anche dal punto di vista della diseguaglianza. Alla luce di questa crescita della disuguaglianza, per lei c’è all’orizzonte il “rischio” di una rottura del “patto sociale”? La possibilità di rivendicazioni più vivaci certamente c’è. I primi sintomi già ci sono. Sappiamo che c’è stata una ripresa degli scioperi anche in zone in cui nessuno probabilmente se l’aspettava. E forse questo potrebbe essere anche salutare.

(Roberto Farneti)