In Iraq un altro giorno di sangue

“Gli iracheni voglionoche le forze multinazionali se ne vadano al più presto possibile». Parole sante, forse in un certo senso parole tardive; ma soprattutto parole che non escono dalla bocca di un pacifista o di un fiero oppositore della politica del presidente Bush, ma nientedimeno che da quella del capo di stato maggiore interarmi americano.
Una ammissione tanto esplicita quanto per certi versi sconcertante, se pensiamo al discorso pronunciato appena pochi giorni fa dal capo della Casa Bianca, ma anche tanto più significativa poiché segue a ruota l’annuncio del segretario alla Difesa Donald Rumsfeld circa un primo ritiro di almeno settemila unità entro la prossima primavera.
Nonostante i peana suonati sulle ultime elezioni (brogli a parte) fermamente volute dalla Casa Bianca e i luoghi comuni sul «trionfo della democrazia», gli iracheni non vogliono gli americani e nemmeno i militari degli altri Paesi della coalizione, quelli che secondo Berlusconi e soci sarebbero «costruttori di pace». E quasi a sottolineare questo stato d’animo, nelle ultime 48 ore la resistenza ha ucciso altri due militari americani, portando così il numero complessivo dei caduti Usa sempre più vicino alla soglia dei 2.200. Per quella che secondo Bush era già il 1°maggio 2003 una “missione compiuta” non c’è male. Il generale Peter Pace, oriundo italiano, ha fatto le sue dichiarazioni in una intervista alla catena televisiva Fox, una rete che si è particolarmente distinta nella copertura degli eventi in Iraq: «Evidentemente gli iracheni – ha detto il capo di stato maggiore – preferiscono che le forze multinazionali se ne vadano il più presto possibile. Non vogliono – ha aggiunto, forse per sforzare l’impatto della ammissione – che questo accada domani, ma il più presto possibile»; il che potrebbe anche voler dire dopodomani, cioè praticamente subito. Nella stessa intervista tuttavia il generale Pace ha smentito la voce che il dipartimento della Difesa stia preparando un piano perù ridurre il numero dei soldati americani in Iraq a meno di 100mila entro l’anno prossimo; dunque ammette che gli iracheni non li vogliono ma conferma l’intenzione di non andarsene finché non vorrà Bush, e cioè fino a quando non sarà possibile ritirarsi salvando in qualche modo la faccia. Attualmente gli effettivi americani in Iraq oscillano intorno alle 158mila unità e con il ritiro molto parziale annunziato da Rumsfeld proprio a Baghdad (sia per motivi di politica interna sia per risollevare il morale delle truppe) potrebbero ridursi a 138mila entro i prossimi due o tre mesi. La contrarietà degli iracheni alla presenza militare americana continua a manifestarsi anche con una nuova intensificazione delle azioni di resistenza e degli attentati, dopo la tregua di fatto osservata durante le recenti elezioni parlamentari; intensificazione che evidentemente si connette anche alle denuncie di brogli e alla presente richiesta di tutto il fronte sunnita, ma anche di esponenti sciiti e laici, per un ricalcolo dei voti o addirittura per una ripetizione delle elezioni particolarmente in certe zone, a cominciare dalla stessa Baghdad.
In proposito è prevista questa mattina nella capitale una manifestazione di piazza intesa appunto a premere sulla Lega araba, sulle Nazioni Unite e sul Comitato elettorale iracheno perché ammettano che le elezioni non sono state corrette e ne riconsiderano il risultato. La manifestazione è promossa da un raggruppamento di almeno trenta partiti e movimenti, per lo più sunniti, che hanno nominato come loro portavoce il candidato indipendente Ali Al Timim ma che hanno con loro anche l’ex-premier provvisorio (fino alla primavera scorsa) Iyad Allawi, sciita ma laico, il quale ritiene evidentemente che la sua fedeltà agli americani sia stata a dir poco mal ripagata. La decisione della resistenza nazionale di giocare la carta delle elezioni, cioè della partecipazione dei sunniti al processo politico, senza rinunciare a quella della lotta armata trova dunque nuove conferme e mette il governo provvisorio, e gli americani che lo sostengono, di fronte all’alternativa fra ridiscutere il risultato del voto o affrontare una crisi politica con il boicottaggio formale del neoeletto parlamento, esplicitamente preannunciato nel caso che vengano ignorate le proteste e i ricorsi presentati alla Commissione elettorale. Una partita insomma del tutto aperta, che trova il fronte sunnita sostanzialmente compatto ma che registra divisioni in campo sciita, fra i “moderati” (ma filo-iraniani) dell’ayatollah Al Sistani da un lato e dall’altro, per paradossale che possa sembrare, i laici e i radicali di Moqtada al Sadr. La guerriglia, come si è detto, intanto continua, anzi riprende vigore in una giornata il cui bilancio saranno in serata quasi quaranta morti. Ieri mattina a Baghdad ci sono stati ben quattro attentati con autobomba, uno (attribuibile quasi certamente a Zarqawi) durante un funerale in un quartiere sciita con almeno due morti e 23 feriti, gli altri in diversi settori della capitale con quattro morti e 17 feriti. A Buhriz, 60 km a nord della capitale, guerriglieri hanno assalito un posto di blocco della nuova polizia irachena, nel conflitto a fuoco sono morti cinque agenti e sei attaccanti; a Dhabab, 100 km a nord, cinque soldati iracheni sono caduti nel corso di una imboscata. A Baquba, capoluogo della provincia di questi due attentati, la resistenza ha decisamente alzato il tiro attaccando il convoglio del governatore provinciale Raad Rashid Juad; il funzionario è rimasto illeso, ma il suo segretario ha perso la vita. E intanto nel sud sciita, nei pressi della città santa di Kerbala, durante i lavori per una conduttura idrica è stata trovata una fossa comune con decine di corpi, risalente quasi certamente al periodo della rivolta sciita della primavera del 1991.