«Nossignore», ha risposto Robert Gates quando al Senato gli è stato chiesto se l’America stesse vincendo la guerra in Iraq. L’uomo che Bush ha scelto per rimpiazzare Rumsfeld al Pentagono si è presentato dignitoso e con il cappello in mano all’audizione per
la ratifica della sua nomina a segretario alla Difesa, anche se dopo l’eco che le sue affermazioni hanno avuto sui tg, si è affrettato a correggere il tiro: «Non stiamo vincendo ma non stiamo perdendo. «Il presidente mi ha chiesto di affrontare la situazione con uno sguardo nuovo ed è quello che intendo fare. Lavorando in costante contatto con la Casa Bianca e con il Parlamento». Non ha fornito indicazioni su una strategia d’uscita che probabilmente non ha, ma ha immediatamente segnalato che non ci sono neanche preclusioni. Chi ha una soluzione in mano si faccia avanti. «Sarà nel corso del prossimo anno o due che si deciderà se gli americani e gli iracheni – e il nuovo presidente degli Stati Uniti – si troveranno di fronte a un lento ma costante miglioramento della situazione o al rischio di una vera e propria esplosione del conflitto in tutta la regione». Gates ha ammesso che «c’era chiaramente un numero insufficiente di truppe in Iraq nella fase immediatamente successiva all’occupazione».
Ora prefigura una presenza drasticamente ridotta del contingente Usa, ma una presenza che sarà ancora necessaria per molto tempo. «Sospetto che all’interno dell’amministrazione qualcuno oggi non prenderebbe le stesse decisioni», ha detto riferendosi al numero di truppe necessarie per stabilizzare il Paese dopo il rovesciamento del regime di Saddam. La sua preoccupazione principale resta che le forze americane lascino l’Iraq in mezzo al caos, costringendo i Paesi a maggioranza sannita, come Turchia e Arabia Saudita, a intervenire. «I turchi non se ne staranno a guardare in disparte mentre l’Iraq si spacca in pezzi». Robert Byrd, senatore democratico della Virginia, ha domandato a Gates cosa pensasse di un eventuale attacco militare contro la Siria o l’Iran, due nazioni che l’amministrazione Bush ha sempre indicato come ostili agli interessi americani in Iraq. Il segretario alla Difesa in pectore – «stanti le circostanze attuali» – ha dichiarato di non essere favorevole a un intervento né in Iran né in Siria. Incalzato sulle possibili ripercussioni, ha convenuto che un allargamento del conflitto contribuirebbe a destabilizzare la situazione e far aumentare la violenza in Iraq. Sull’imbarazzante questione della mancata cattura di Osama bin Laden, che secondo le più accreditate fonti d’intelligence si nasconderebbe ancora lungo il confine tra Afghanistan e Pakistan, Gates non ha lasciato spazio a promesse o facili illusioni: «Credo che l’importante sia tenere bin Laden in fuga. Ottenere informazioni sui suoi spostamenti resta molto difficile. Se riusciremo a prenderlo sarà perché qualcuno dei suoi gli girerà le spalle facendoci una soffiata, come è accaduto con Saddam».
Subito prima dell’audizione Bush ha ricevuto Gates alla Casa Bianca per la piccola colazione e quindi invitato con toni baldanzosi il Senato a procedere con speditezza alla ratifica della sua nomina, quasi che la decisione di tenersi Rumsfeld per sei anni gli fosse stata imposta dai parlamentari. Il repubblicano John Warner, presidente uscente della commissione, si è detto fiducioso che il Senato approverà la nomina di Gates con la votazione di oggi, giorno in cui viene presentato il documento redatto dall’Iraq Study Group, la speciale commissione paritetica incaricata di riesaminare tutta la strategia americana in Iraq. Gates è stato membro della commissione prima che Bush annunciasse la sua scelta per il dipartimento alla Difesa. Una nomina accolta generalmente con favore tra i democratici. Gates non ha nessuna precedente esperienza al Pentagono, il suo curriculum è quello di un analista dei servizi che sotto Reagan è arrivato alla guida della Cia. L’audizione di ieri è stata una passeggiata rispetto a quella del 1991 per la riconferma a capo dello spionaggio. In quell’occasione fu chiamato a rispondere di falsificazione dell’intelligence per aver esagerato il pericolo rappresentato dall’Urss e del suo coinvolgimento nello scandalo Iran-Contra.