Il contingente italiano presente in Iraq accanto alle forze di occupazione americane si ritirerà in modo «graduale e concordato» «entro l’autunno». Considerando che l’inverno inizia il 21 dicembre i nostri soldati continueranno così a rischiare la vita – con unoscadenzario di riduzione del contingente esattamente uguale a quello del precedente governo – per altri sei mesi per una missione – sempre più pericolosa man manoche diminuirà la consistenza della nostre forze – che il governo stesso ha definito ormai conclusa. E’ questo il senso della missione a Baghdad del ministro degli esteri italiano Massimo D’Alema che ha incontrato Nuri AlMaliki, il nuovo capo diun governo che ancoranon c’è – per l’impossibilità di designare i due ministri chiave, quello della difesa e degli interni – il titolare degli esteri il curdoHoshiyar Zebari e il presidente del parlamento Mahmmoud al Mashhadani. Successivamente MassimoD’Alema, prima di rientrare in serata in Italia, ha fatto visita nella città settentrionale di Suleimaniya al presidente iracheno, esponente dei movimenti separatisti curdi, Jalal Talabani. Nel corso dei numerosi incontri con i vari esponenti iracheni filo-Usa il ministro degli esteri italiano ha comunicato ai suoi interlocutori la decisione del governo di Roma, su «mandato degli elettori», di far tornare a casa i soldati italiani «entro l’autunno» ma senza fissare alcuna data precisa. In ogni caso, ha sostenutoD’Alema, «L’Italia non intende abbandonare l’Iraq» e il governo di Roma, «continua a sostenere il processo democratico dell’Iraq sul piano economico e politico». Il vicepremier e ministro degli esteri ha poi sostenuto che il Governo «si spenderà per ottenere un maggior coinvolgimento in Iraq delle Nazioni Unite, dell’Unione europea e della Nato». Quest’ultima del resto è già impegnata ad addestrare – anche con ufficiali italiani – i nuovi quadri dell’esercito iracheno in una nuova accademia costruita in una base alla periferia di Baghdad.Nonè chiaro al riguardo se il governo di Roma intenda ritirare tutti i soldati italiani presenti in Iraq, anche quelli presso i comandi della forza multinazionale a Basra, Baghdad e presso l’accademia Nato – circa 166 uomini – oppure se il ritiro riguarderà in particolare il contingente presente a Nassiriya che alla fine di giugno dovrebbe scendere a 1600 uomini per poi ridursi lentamente in attesa dell’inverno. In previsione del ritiro l’Italia sta consultando il governo iracheno e quelli degli altri Paesi che hanno truppe in Iraq, in particolare americani e britannici per «garantire un ordinato passaggio di consegne, senza porre problemi di sicurezza o vuoti di potere». Nelle dichiarazioni del ministro degli esteri italiano in realtà non v’è stata traccia della drammatica situazione nella quale si trova l’Iraq: un paese dove la resistenza si sta rafforzando sempre più sia per la quantità delle operazioni condotte contro le truppe occupanti sia per la sua capacità di investire zone, come il sud, una volta relativamente tranquille; un paese dove il progetto Usa di soffiare sulle divisioni etniche e religiose sta spingendo l’Iraq verso una sorta di guerra civile strisciante tra sunniti e sciiti condotta in prima persona dal governosciita curdo con i suoi squadroni della morte antiguerriglia del ministero degli interni e delle «Forze di protezione» dei vari ministeri – singolare al proposito sentir parlare di processo democratico nel giorno in cui le forze di polizia di quel governo che l’Italia dovrebbe aiutare, rastrellavano nel centro di Baghdad, nel terminal della «Al-Akeily Travel and Tourism» nel distretto di Salehiya, una cinquantina di persone tra dipendenti, clienti e lo stesso gestore dell’agenzia e i suoi figliper poi farne «sparire » 35 e rilasciarne durante la notte solamente 15, i più fortunati, dopo averli sottoposti alle più incredibili torture. Un paese dove lo scontro tra le varie milizie sciite, soprattutto al sud, e l’azione dei gruppi ultra sunniti vicini ad al Qaida sta trasformando in un inferno la città di Basra e l’intero meridione dell’Iraq dove operano i nostri soldati. Un paese dove le milizie curde di Jalal Talabani stanno portando avanti una vera e propria pulizia etnica ai danni della maggioranza araba e turcomanna della città di Kirkuk, in vista di una folle divisione dell’Iraq su basi etniche e confessionali o dove la polizia apre il fuoco sulle famiglie dei sopravvissuti di Halabja colpevoli anch’essi di denunciare le malefatte dei vari capi tribali al governo nel Kurdistan. Una situazione drammatica che ha spinto ieri il Pentagono ad annunciare l’invio urgente in Iraq di un’altra brigata di 3500 uomini, dopo avere ampliato il contingente la scorsa settimana con due battaglioni tenuti di riserva in Kuwait (1500 uomini circa). In altri termini invece di ridursi a 130.000 uomini, come previsto, il contingente Usa salirà di nuovo a 137.500 soldati.Unapessima notizia per l’Amministrazione Bush che avrebbe voluto ridurre il proprio contingente alla vigilia delle elezioni di mediotermine previste per il prossimo novembre. E visto che il nostro ritiro renderà ancorapiù difficile questa riduzione del contingente Usa, per un attimo non può non nascere il sospetto, subito scacciato, che più dei «problemi tecnici» abbiano pesato sulla decisione del governo di lasciare i nostri soldati in Mesopotamia fino a dicembre le preoccupazioni elettorali dell’Amministrazione Bush.