«In Iraq, diecimila soldati Usa hanno disertato»

«La vittoria democratica alle elezioni di medio termine non determinerà alcuna svolta significativa nella conduzione della politica estera americana riguardo all’Iraq. A parte alcune modifiche tattiche di tono, non sarà deciso alcun ritiro delle truppe. Tragicamente, siamo destinati a restare lì per un lunghissimo tempo». E’ questa la prospettiva secondo il soldato Camillo Mejia, il primo militare che, nel novembre del 2003, decise di disertare per non partecipare più alla «guerra illegale» americana e fu costretto così ad entrare in clandestinità. Processato con grande clamore mediatico dalla Corte marziale, è stato l’unico a scontare un anno di reclusione, dalla quale è riemerso nel febbraio del 2005. L’amara esperienza, che ha fatto di lui il leader simbolico della resistenza all’invasione americana in Iraq, è narrata nel libro «Il percorso da Al-Ramadi alla resistenza del sergente Mejia».
Perché ritiene che il verdetto dell’elettorato americano contro l’amministrazione Bush non convincerà la maggioranza democratica a decidere il ritiro dall’Iraq?
Non ci sara nessun ritiro dall’Iraq perché noi americani siamo in Iraq per interessi economici, non per il patriottismo politico repubblicano, che proclamava la necessità della rimozione dal potere di Saddam Hussein, tramite guerra preventiva, per evitare che l’America fosse attaccata con armi di distruzione di massa. Tutte menzogne ancora oggi proclamate sia dai leader politici repubblicani sia da quelli democratici. Occupiamo l’Iraq per la sua collocazione geostrategica e per le riserve petrolifere, le seconde al mondo. Questi fatti sono noti sia ai capi democratici che ai capi repubblicani, che sono i maggiori beneficiari dei profitti che ne derivano. Il leader designato ora dal partito democratico, Hilary Clinton, non si sogna neppure di promettere il ritiro dall’Iraq. Il presidente del partito democratico Howard Dean dopo le elezioni si e affrettato a dire che non ci si può ritirare e abbandonare l’Iraq ora. Forse nei prossimi mesi i democratici, se non vorranno perdere il controllo della maggioranza, dovranno farci credere in un ritiro parziale attuando al tempo stesso un’alternativa tattica di «dialogo» diplomatico per poi di fatto prolungare l’occupazione.
Che interpretazione danno i soldati della rimozione di Donald Rumsfeld?
La gestione fallimentare della guerra in Iraq e la popolarità dei democratici hanno reso necessario un cambio tattico il cui primo passo è stata la defenestrazione dell’architetto della guerra risoltasi in un pantano senza vie d’uscita. D’altra parte una richiesta forte di cambiamento è venuta, prima ancora che dai democratici, da alcuni esponenti repubblicani, che hanno visto in pericolo i propri scranni, e dai generali. I soldati sono molto scettici riguardo al potere politico, sia esso repubblicano o democratico. Del resto lo stesso Bush rischiava di essere delegittimato per il resto del suo mandato.
Qual è ora, sulla base della sua esperienza come leader dei reduci dall’Iraq l’umore dei soldati reduci dall’Iraq, dopo tre anni di occupazione?
La stragrande maggioranza dei soldati americani vuole il ritiro immediato dall’Iraq e dal’Afghanistan. Il 72% di chi serve al fronte in Iraq ritiene che la propria «missione» sia insensata. E’ un sentimento più volte da me raccolto nel paese, dettato più che dalla coscienza politica, da motivazioni più semplici, come il cinismo e il disincanto nei confronti dell’esercito e del patriottismo nazionale identificato con i militari. Questo, da tre anni, è il malessere generalizzato che serpeggia fra i soldati tornati dal fronte. Indipendentemente dall’avvicendarsi di chi detenga il potere politico. E’ dettato dalla cruda realtà di questa guerra che continua e non se ne vede la fine. Tutti coloro che tornano dal fronte sono affetti da varie malattie causate da sindrome post traumatica. Molti sono psicologicamente dei rottami. Tanti sono fisicamente menomati. E non ricevono alcuna assistenza per la loro condizione di reduci di guerra.
Lei nel novembre 2003 è stato il primo soldato a entrare in clandestinità in opposizione alla guerra. Tre anni dopo, qual è l’esperienza da lei raccolta fra i soldati, in giro per gli Stati uniti.
Dal 2003, anno dell’invasione americana in Iraq, diecimila sono i soldati che senza timori per minacce e punizioni vengono considerati dal Pentagono «disertori». Si sono rifiutati di partecipare a questa missione in Iraq. I dati sono ufficiali.
E’ un numero di «refusnik», molto alto, diecimila soldati che rifiutano di partecipare alla guerra in Iraq. Come mai sono passati sotto il silenzio stampa del Pentagono?
Sarebbe troppo dispendioso, per il Pentagono, decidere di processare davanti ad un tribunale di corte marziale diecimila soldati che rifiutano di combattere in Iraq. Meglio una «dishonorable discharge» che non solleva clamori di pubblicità.