La Moldova, il più povero paese d’Europa, è precipitata ieri nel caos e nella violenza: una giornata di scontri fra polizia e dimostranti antigovernativi ha prodotto centinaia di feriti, forse dei morti (si parla di una ragazza soffocata dal fumo di un incendio), mentre i principali edifici pubblici della capitale Chisinau – parlamento e presidenza – venivano saccheggiati e dati alle fiamme. Ancora in serata non era chiaro l’esito del drammatico confronto in corso, né si poteva tracciare un bilancio dei danni e delle vittime. I leader di Russia ed Unione europea hanno lanciato appelli alla calma e al dialogo.
«Tentativo di colpo di stato», come ha denunciato il governo, o «indignazione popolare» per delle elezioni truccate, come sostengono i partiti dell’opposizione? Nella piccola repubblica ex sovietica, schiacciata fra Ucraina e Romania e da 17 anni lacerata dalla secessione del territorio della Transnistria, domenica ci sono state le elezioni parlamentari: il Partito comunista, al potere da otto anni, ha vinto largamente con il 50% dei voti, mentre i partiti di centrodestra dell’opposizione, divisi, hanno ottenuto percentuali molto basse. Gli osservatori internazionali hanno definito corretta la consultazione, pur con qualche riserva; ma l’opposizione ha subito gridato ai brogli, esigendo la ripetizione del voto e promettendo azioni «anche estreme».
Già lunedì pomeriggio migliaia di persone sono scese in piazza, pacificamente, per protestare; ieri mattina la protesta ha iniziato a trasformarsi in un vero e proprio assedio ai palazzi istituzionali, contro cordoni di polizia esili e impreparati. Il parlamento e il palazzo presidenziale – alle due estremità del principale corso cittadino – sono stati attaccati a più riprese finché lo schieramento di polizia, munito solo di scudi e qualche idrante, non ha ceduto sotto gli attacchi e le sassaiole: i dimostranti hanno quindi invaso i palazzi, saccheggiandoli e appiccando incendi all’interno e all’esterno degli edifici, e rimanendo padroni del campo, cioè del centro di Chisinau.
La polizia, ancora in serata, non era riuscita a riprendere il controllo della situazione; le voci che volevano un accordo fra autorità e opposizione per andare a un riconteggio dei voti venivano quasi subito smentite – il leader del maggior partito di opposizione, Vlad Filat, affermava che la richiesta non è un riconteggio ma nuove elezioni. Dal lato del governo, peraltro, non era chiaro chi effettivamente fosse al comando: per ore nessuno si è presentato in tv per spiegare cosa stesse succedendo. Al contrario, telefoni, cellulari e internet hanno smesso di funzionare mentre la tv trasmetteva musica. Soltanto in serata il presidente Vladimir Voronin, leader del partito comunista, è apparso in tv per dire che intende «difendere il paese dagli attacchi dei fascisti». Richiamato anche l’ambasciatore in Romania: Bucarest ha tenuto un atteggiamento ambiguo ieri, limitandosi a denunciare delle imprecisate «provocazioni».
Voronin è alla fine del suo secondo mandato consecutivo e non può più essere rieletto: ma con la conquista di metà dei seggi del parlamento da parte del suo partito, certamente potrà imporre come successore un suo uomo. Sembra impossibile che l’opposizione, anche se si rivotasse, possa conquistare posizioni molto migliori di quelle che ha. Del resto gli slogan agitati non sono compatibili con un aggiustamento politico: unificazione con la Romania, entrata nella Ue e soprattutto un «basta con il comunismo» che non si capisce cosa significhi – dato che in questi anni il «comunismo» moldavo non è stato un regime diverso da quello delle «democratiche» Romania o Ucraina (basti pensare che il sindaco di Chisinau è dell’opposizione).
Sullo sfondo del conflitto ci sono soprattutto due questioni: la tragica povertà del paese, privo di risorse e afflitto da una endemica corruzione, che Voronin non ha saputo affrontare; e la sua collocazione internazionale, sul confine tra Ue (rappresentata dalla Romania, che con la Moldova condivide la lingua, ma non la storia) e mondo slavo, con la Transnistria che parla russo, vorrebbe unificarsi alla Russia e ospita da 17 anni una forza armata di 1200 peacekeeper russi. In questa regione separatista nessuno ha votato, domenica: il governo secessionista di Igor Smirnov (a sua volta gonfio di riferimenti «comunisti») non ha nessuna simpatia per Voronin, con il quale i negoziati iniziati nel 2008 con una mediazione internazionale (Russia, Usa, Ue, Romania e Ucraina) sono subito saltati. Non è per niente chiaro, comunque, quale sarebbe il futuro delle relazioni fra Moldova e Transnistria se al potere a Chisinau salisse l’opposizione: alcuni dei suoi leader affermano che la secessione verrebbe de facto accettata, altri al contrario sostengono che occorre riunificare con la forza il paese. Lo spettro dei conflitti internazionali legati alle «piccole patrie», dal Kosovo alla Sud Ossezia, aleggia pesante.