In Europa le prigioni segrete della Cia

La rete “fantasma” ordinata da Bush dopo l´11 settembre e nota a pochi collaboratori
La Repubblica ceca conferma: gli Usa ci chiesero ospitalità, noi rifiutammo

Nei documenti top secret della Casa Bianca e della Cia sono chiamati «Black sites», siti neri, con una metafora mutuata dall´astronomia, ma non per questo meno lugubre e inquietante. Si tratta di prigioni segrete, disseminate in Afghanistan e in una mezza dozzina di altri paesi, specie dell´Europa orientale (utilizzando ex gulag dell´era sovietica), in cui gli 007 del governo americano tengono in custodia un centinaio di super-terroristi e di dirigenti di Al Qaeda.
L´obiettivo dei «Black sites» è duplice: innanzitutto di evitare battaglie legali sull´habeas corpus dei prigionieri, neutralizzandoli a tempo indeterminato e baipassando le leggi americane, che non consentirebbero un simile trattamento. In secondo luogo, di poter ricorrere a metodi di interrogatorio più efficaci, ma probabilmente vietati dalle convenzioni dell´Onu e dai regolamenti del Pentagono. Come la «tortura» del waterboarding, in cui si fa credere al carcerato che sta per annegare per estorcergli la confessione.
Da tempo i militanti di Amnesty International e gli esperti di anti-terrorismo erano convinti che gli Stati Uniti si servissero di super-carceri per ospitare i pezzi grossi arrestati in Afghanistan e nei raid anti-terrorismo in vari paesi occidentali.
Dove altro poteva essere finito Khalid Sheik Mohammed, capo delle operazioni di Al Qaeda e numero tre del movimento, dopo Bin Laden e al-Zawahiri, catturato in Pakistan nel 2003? Dove altro potevano essere rinchiusi Ramzi ben al-Shaiba, il cervello dell´11 settembre, e magari anche Hassan Mustafa Osama Nasr (conosciuto come Abu Omar), l´egiziano sequestrato a Milano da 13 agenti della Cia, di cui ora si è persa ogni traccia?
Nessuno di questi «prigionieri fantasma» poteva trovarsi a Guantanamo. La base del Pentagono nell´isola di Cuba è al centro di troppe polemiche. E´ persino troppo «visibile» per permettere agli 007 di avere carta bianca negli interrogatori, anche se il ministro della difesa Donald Rumsfeld ha appena negato all´Onu di visitare i 505 detenuti nelle sue gabbie. Il mistero sulla sorte dei terroristi-vip è stato svelato ieri dal Washington Post, che per primo ha descritto la rete dei «Black sites», agitando lo spettro di tante Abu Ghraib (la prigione delle torture vicino a Bagdad).
Secondo il quotidiano, il network segreto è stato creato dopo l´11 settembre 2001 sulla base di un ordine esecutivo firmato da George W. Bush. La sua esistenza è nota solo a un numero ristretto di politici e alti funzionari, sia negli Stati Uniti che nei paesi ospitanti. Nella rete figurano «alcuni stati democratici dell´Europa dell´est», cioè dell´ex patto di Varsavia, oltre che la Thailandia e l´Afghanistan.
Senza smentire né confermare le rivelazioni del Post, Stephen Hadley, che all´inizio dell´anno è diventato consigliere per la sicurezza nazionale di Bush al posto di Condoleezza Rice, ha spiegato che le disposizioni presidenziali sono ferree: anche senza controlli internazionali, i militari e gli agenti del controspionaggio devono rispettare le norme sugli interrogatori stabilite dalla Casa Bianca. E alcuni carcerieri, ha aggiunto, sono già stati puniti per non averlo fatto.
I democratici non hanno perso tempo per sparare a zero contro Bush, aggiungendo altre accuse a quelle del Cia-Gate per il quale sarà ascoltato oggi dal giudice l´ex capo di gabinetto di Cheney, Scooter Libby. Naturalmente la scoperta dei «Black sites» pone in una prospettiva diversa il dibattito al Congresso sulle regole da seguire sugli interrogatori dei terroristi: perché – si chiedono ora i dirigenti dell´opposizione – il governo voleva esentare la Cia dall´osservanza di quelle norme? Forse per dare carta bianca agli 007 nelle prigioni all´estero?
Intanto è cominciata la caccia ai paesi europei coinvolti nella rete segreta. Thailandia, Russia, Bulgaria, Slovacchia e Repubblica ceca hanno negato ogni coinvolgimento, anche se il ministro degli interni di Praga, Frantisek Bublan, ha ammesso di essere stato interpellato da Washington e di aver declinato l´invito. Qualcuno ha citato la Romania, che è tra i «primi della classe» tra gli alleati della guerra irachena. In teoria una conferma potrebbe darla il Washington Post, che ha in mano la lista dei paesi del network. Ma il quotidiano ha deciso di non divulgarla, su richiesta di un alto dirigente del governo, per non mettere a repentaglio la guerra contro il terrorismo ed evitare ritorsioni. Una scelta, questa, che rischia di alimentare nuovi interrogativi etici sulla stampa d´oltreoceano, dopo il caso di Judith Miller del New York Times.