In Ecuador vince la sinistra

Di nuovo sovvertiti i sondaggi: dato per vincitore al primo turno ma poi arrivato secondo dietro al magnate dell’industria bananiera Albvaro Noboa, Rafael Correa ha vinto, eccome, al secondo turno quando l’esito della votazione era dato per incerto. L’ormai futuro presidente dell’Ecuador ha 43 anni, è un ferreo alleato del leader venezuelano Hugo Chavez, ha studiato negli Usa e ha preoccupato Wall Street con la promessa di limitare il pagamento del debito pubblico. Il candidato di sinistra aveva recuperato consenso nelle ultime settimane dopo aver perso il primo turno elettorale a ottobre. La sua vittoria rappresenta l’espansione dell’influenza di Chavez nella regione con un significativo indebolimento del “peso” degli Stati Uniti.

Lo sconfitto Noboa ha tentato il “colpo di teatro”: ad operazioni di voto ancora in corso, dopo aver affermato di aver vinto la consultazione, Bibbia in mano, in ginocchio e invocando il nome di Dio ha affermato: “sono io il presidente dei lavoratori e dei poveri!”. Quindi il magnate ha ribadito la sua auto-proclamazione a successore del presidente uscente, Alfredo Palacio, invitando gli elettori a non prestare ascolto agli exit poll. Successivamente, anche dopo la pubblicazione dei primi dati dello spoglio, il magnate delle banane ha ignorato i risultati e ha dichiarato: “abbiamo sconfitto il portafoglio più grasso della nazione”.

Ha prevalso nei nove milioni di elettori ecuadoregni la voglia di cambiamento, il timore di ripetere, con Noboa, la storia sempre vista di grandi promesse mai realizzate, di povertà sempre più dura, dello stato strumento dell’oligarchia, dell’imbroglio, della presa in giro, della disperazione. Correa rappresenta quel cambiamento radicale a cui hanno sempre aspirato le masse povere del paese e parte della borghesia, quel colpo di scopa che tenta di rimettere le cose al loro posto. La speranza di una vita migliore.

Questo, almeno, è riuscito a trasmettere Correa nelle prime interviste rilasciate “a caldo”, mentre si concretizzava la sorprendente vittoria del giovane economista. Ora ha davanti a sé delle sfide difficili da superare. Ha un parlamento contro, almeno per i prossimi otto mesi: non ha presentato candidati perché si e’ impegnato a convocare un’Assemblea Popolare che ristrutturi l’attuale sistema di potere, e questo sarà un impegno molto difficile da portare avanti.

Non ha più una moneta nazionale: da anni l’Ecuador ha adottato la ‘dollarizzazione”, cioé la moneta che circola e di cui dispone é il dollaro americano, e non è facile non andare d’accordo con chi ha in mano le redini della finanza del paese, e cioé gli Stati Uniti. Il programma di Correa è parecchio contro gli interessi dei potenti vicini: ha promesso di non rinnovare l’accordo per la base militare USA di Mantua, che scade in tempi abbastanza brevi; respinge radicalmente la firma di un TLC (Trattato di Libero Comnercio) con gli USA, pilastro invece della politica economica americana in America Latina; é determinato a portare avanti una “rinegoziazione degna, sovrana e tecnica” del debito estero ecuadoregno, senza escludere una eventuale moratoria, “perché la vita degli ecuadoriani viene prima” dell’asfissiante impegno a a riparare il debito. E in politica estera, anche se nlle ultime battute della campagna elettorale ha moderato un po’ i toni, molto probabilmente andrà a formare, assieme al Venezuela di Chavez ed alla Bolivia di Morales, il nucleo piú radicale della rinnovata geopolitica latinoamericana.