«In bicicletta con le armi nello zaino»

Rosario Bentivegna non ha certo bisogno di presentazione: comandante dei Gap, fu lui a spingere il leggendario carretto pieno di esplosivo che causò l’attentato a via Rasella. Lo abbiamo chiamato per farci raccontare la storica giornata del 4 giugno 1944, quando Roma venne liberata dai nazisti.
«La mattina del 4 giugno, all’alba, Carla (si tratta di Carla Capponi ndr) e io – dice l’ex partigiano – siamo partiti, a piedi fino alla periferia di Roma e poi in bicicletta, per andare a portare sul monte Gennaro, a Tivoli, le torce luminose che mi aveva consegnato Valentino Gerratana la sera del 3. L’obiettivo era realizzare un campo di lancio per gli alleati. Allora io ero stato mandato sui monti Prenestini come comandante delle formazioni militari del Cln, del Centro militare clandestino e di altre formazioni di una zona che andava praticamente da Zagarolo-Palestrina fino al fronte di Cassino, dei monti Simbruini, e dall’altra parte, dei Colli Albani. Dovevo andare a preparare questo campo di lancio, raccogliere le armi, portarne una parte ai miei compagni della zona prenestina e con loro e con i compagni di Tivoli precedere le forze armate alleate in città per partecipare all’insurrezione di Roma. Questo era il piano.»

Avete incontrato le truppe naziste in ritirata?

Quando siamo arrivati a Ponte Mammolo mi sono trovato di fronte all’esigua linea di resistenza delle retroguardie naziste. Ci ha fermato un ufficiale e ci ha chiesto dove stavamo andando. Rispondemmo che eravamo giovani sposi e volevamo raggiungere nostro figlio a Tivoli dove era accudito dalla balia ed eravamo logicamente preoccupati dalla situazione. L’ufficiale tedesco, che per la verità fu molto disponibile e gentile, ci disse che a pochi chilometri di lì c’erano gli americani. Noi rispondemmo che dovevamo cercare di passare lo stesso e lui non ci ostacolò. Per fortuna non ebbe la curiosità di guardare nei nostri zaini e passammo.

In che misura la resistenza partigiana contribuì alla liberazione di Roma?

Basti pensare a tre fatti per avere un’idea del contributo resistenziale alla liberazione della capitale: innanzitutto a Roma cominciò la Resistenza. A Porta San Paolo, ma non solo, anche nelle zone vicine, come Monterotondo, la Cecchignola, Monterosi, Ladispoli, Poggio Mirteto. Ci fu una dura battaglia per impedire che i tedeschi entrassero a Roma.

Quale fu il contributo dell’esercito italiano?

L’esercito, di fatto, si squagliò dopo l’8 settembre, ma è tuttavia innegabile che una grossa resistenza la fecero anche reparti delle forze armate. Tanto che in quei giorni furono uccisi in combattimento circa 650 italiani, tra cui oltre 400 soldati, oltre 200 civili e tra questi 17 donne tra cui una suora. Va ricordato che all’indomani della caduta del fascismo i tedeschi chiesero un armistizio perché non riuscivano ad entrare a Roma. E l’armistizio fu accordato ad un patto importantissimo, perché le truppe del Führer riconobbero a Roma non la qualifica di “città aperta”, perché effettivamente non esistevano le condizioni giuridico-militari, ma di “città libera”. Questo è scritto sul documento firmato da Kesserling, dove è precisato che le truppe tedesche non sarebbero entrate, che la città sarebbe stata presidiata da reparti regolari dell’esercito italiano mentre i tedeschi chiesero per loro solo il controllo della loro ambasciata, dei centralini telefonici e delle stazioni radio di Roma uno.

Un accordo disatteso…

Infatti due giorni dopo, con la linea di difesa ormai smobilitata, i tedeschi entrarono in Roma, rastrellarono soldati, ufficiali, civili, uomini per i campi di lavoro e spedirono in campo di concentramento anche il generale Calvi di Bergolo, genero del re e firmatario del documento insieme a Kesserling.

Che cosa accadde a Roma occupata dai tedeschi?

Il primo atto fu la proclamazione dello “stato di guerra” e l’entrata in funzione della legge militare germanica. Poi cominciarono i rastrellamenti, le fucilazioni, cominciando da Salvo D’Acquisto, tra i primi caduti della Resistenza romana. E furono proprio i carabinieri le vittime del primo grande rastrellamento del 7 ottobre 1943, nove giorni prima che ci fosse il grande rastrellamento degli ebrei del 16 ottobre. E intanto però le formazioni partigiane erano entrate in combattimento e i fascisti furono rapidamente spazzati via dalle strade. La stessa popolazione cominciò a proteggere e a nascondere tutti coloro che erano ricercati, e si trattava di alcune centinaia di migliaia di persone, e cioè i giovani renitenti alla leva, gli uomini in età da lavoro renitenti alla leva del lavoro, e poi i politici antifascisti, i partigiani, i soldati sbandati e perfino i fascisti che avevano rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò. Senza contare molti prigionieri alleati fuggiti dai campi di concentramenti. I nazisti dicevano che mezza Roma nascondeva l’altra metà.

Veniamo invece all’oggi. Questo sessantesimo anniversario verrà ricordato purtroppo anche per la visita di Bush, che sta conducendo una guerra spaventosa, corredata da gravissime violazioni dei diritti umani. Che cosa ne pensi?

Io sono totalmente d’accordo con quanto sta facendo Veltroni il quale ha rimandato la festa dei partigiani, dal 4 al 6 di giugno, proprio per evitare che potesse essere interpretata come una manifestazione di giubilo per l’arrivo di Bush. Va fatta inoltre una netta distinzione tra il popolo americano e il governo americano. Noi allora fummo ben felici che gli americani arrivassero a Roma e io personalmente amo l’America. Questo non esclude che Bush è un’altra cosa e quindi non dobbiamo mescolarci con coloro che invece lo acclamano.