In Afghanistan la legge dei «signori della terra»

La nuova parola d’ordine, pur di una qualche saggezza, è che bisogna comprar l’oppio agli afghani e sottrarre così ai talebani la decima che ne ricavano per comprarsi le armi. Ma il vero problema è con chi si deve trattare. Da chi, insomma, si dovrebbe comperare?
Nonostante la gran messe di dati che ogni anno appare sui rapporti dell’Agenzia dell’Onu diretta da Antonio Costa, tutto si riesce a sapere tranne chi ha in mano la proprietà della terra, cosa che, in tutte le società del mondo, determina equilibri e giochi di potere.
Il problema dell’oppio è solo in parte una vicenda di contadini poveri, molto spesso mezzadri, il più delle volte braccianti senza terra come sono il maggior numero degli afghani agricoltori. La proprietà della terra è un nodo così importante – e così poco indagato – che fu in parte tra i motivi all’origine dell’invasione sovietica dell’Afghanistan come argomenta una bella indagine dell’Afghanistan Research Evaluation Unit, centro di ricerca indipendente con base a Kabul. Scrive Liz Alden Wily che era stato il repubblicano Daud (che aveva esautorato re Zahir) a tentare una riforma della proprietà negli anni Settanta per una redistribuzione equanime. Mossa che, nonostante i buoni propositi, «fu seguita in modo più estremo e brutale» dai regimi filosovietici di Taraki e Amin. La riforma stava nella definizione di un tetto alla proprietà terriera oltre il quale c’era la confisca. Fallita con Daud, la riforma agraria fu ripresa da Taraki-Amin e imposta con la forza, senza fissare una ricompensa agli espropriati mentre il governo decideva la cancellazione retroattiva (cinque anni) dell’indebitamento dei mezzadri. «La ribellione, accompagnata da quella dovuta alla radiale riforma nel settore educativo – scrive Wily – portò all’occupazione sovietica». La ribellione alla riforma non era certo ambizione da contadini poveri anche se, osteggiata da mullah e khan (dignitari tribali), finì per diventare ostica persino per il popolino.
Elisa Giunchi (in «Afghanistan», edito da Carocci) lo spiega così: «Si andavano a toccare i tre pilastri della società – zar, zan e zamin (donna, oro, terra)» turbando lo statu quo e ignorando «i rapporti di reciprocità che univano le varie componenti del mondo rurale: il proprietario terriero era, spesso, anche il capo tribù… non vi erano due classi sociali separate e contrapposte, proprietari e contadini, ma gruppi uniti da legami di solidarietà clanico-tribale o clientelare». Giocò anche l’ostilità a «qualsiasi tipo di interferenza esterna» mentre si ignorava l’esistenza di «terreni comunitari registrati sotto il nome dei khan… l’inadeguatezza dei documenti scritti e il nomadismo… La conseguenza fu che il mondo contadino, invece di approfittare di queste riforme, insorse in difesa dei suoi oppressori».
Le cose da allora sono peggiorate. Il catasto è riuscito a schedare, tra il 1966 e il 1996, solo il 30 per cento del territorio in un ginepraio di leggi e decreti emanati anche dai talebani. Come se non bastasse la guerra ha creato il nodo del reintegro delle proprietà per i rifugiati all’estero ben riassunto da una ricerca dell’International Rescue Committee: «Il problema per chi ritorna non è la proprietà ma l’accesso alla proprietà», passata di mano tra signori della guerra e signori della terra, spesso riuniti in una singola figura, con soldi e milizie armate.
La sintesi dell’Onu sulla situazione, riassunta nel 2003 da Paulo Sergio Pinheiro, responsabile per la restituzione ai profughi di case e terreni, è limpida: problemi di proprietà e diritti poco chiari, confische illegali, mancanza di terra e di procedure per la restituzione, discriminazione di genere, doppia giurisdizione. L’Asian Development Bank ci aggiunge il quadro dei rapporti di mezzadria che «coinvolgono relazioni complesse in cui è difficile distinguere tra creditori/debitori e proprietari/mezzadri». Secondo il rapporteur dell’Onu Miloon Kothari, le dispute sulla proprietà sono in agguato: potrebbero – ha detto – sprofondare il paese in un nuovo conflitto. Altro che talebani.
La caratteristica della proprietà terriera in Afghanistan sta soprattutto in una peculiarità nazionale e cioè che la maggior parte degli afghani non la possiede o la tiene in mezzadria, mentre il 2,2 per cento detiene il 19 per cento del totale della terra (che per oltre il 40 per cento è incolta e inutilizzabile e per il 45 per cento è pascolo). Se si fa la tara tra montagne e pascolo, si può indovinare come la proprietà privata insista sulle poche zone irrigue e pianeggianti, quel risicato 15 per cento strappato a pianure aride o alle enclave pianeggianti sparse per il paese che deve combattere con un territorio per quattro decimi ostaggio di nevi semiperenni. Il nodo della guerra afghana sta anche qui.

*Lettera22