Criticare la politica delle privatizzazioni, in questo clima neoliberale (o, forse meglio, paleocapitalistico), può apparire ozioso, in quanto, oltre a andare contro una dottrina universalmente accettata (meno stato, più privato, ecc.) da privatizzare non c’è rimasto quasi niente. Tuttavia quel «quasi» ha ancora un certo spessore (un giorno sì e uno no si riparla di privatizzare la Rai, la Fincantieri, le municipalizzate, ecc., anche di fronte ai risultati tutt’altro che edificanti delle privatizzazioni già compiute, come Telecom, Autostrade, Cirio, e via dicendo).
Cerchiamo allora di capire perché vada difesa la proprietà pubblica, evitando, se possibile, i termini abusati, oltre che del tutto soggettivi, di «strategico» e «nazionale». Quali sono le differenze di fondo tra un’impresa pubblica o semipubblica e una privata?
Certamente non il peso decisionale dell’azionariato: tra i centomila piccoli azionisti di una public company e i milioni di contribuenti che rappresentano l’azionariato di un’impresa pubblica sarebbe difficile dire chi abbia minore peso decisionale. D’altra parte, neppure la qualità del management può rappresentare una discriminante: abbiamo esempi di imprese pubbliche ottimamente gestite e di imprese private gestite malissimo, e viceversa; e è meglio non fare nomi per carità di patria. La vera differenza è nel rapporto tra obiettivi e vincoli delle une e delle altre.
L’obiettivo dell’impresa privata è ovviamente il profitto: quello aziendale per le imprese ben gestite, o quello individuale dei proprietari quando esista un controllo diretto o un «azionista di riferimento»; i vincoli sono quelli del rispetto delle leggi e dei contratti di lavoro, dell’ambiente, ecc.
Per l’impresa pubblica gli obiettivi sono (o dovrebbero essere) diversi: la creazione di posti di lavoro, lo sviluppo delle aree depresse, la lotta ai monopoli, il progresso tecnologico, ecc. E’ il profitto a costituire un vincolo: questi obiettivi devono essere perseguiti in condizioni di economicità.
Non sorprende che, per realizzare i propri obiettivi, sia i privati che i pubblici tendano a aggirare o a ignorare i vincoli: che dunque le imprese private possano (occasionalmente!) trasgredire le leggi, o non rispettare gli accordi, e che quelle pubbliche trascurino il criterio di economicità e chiudano i bilanci con una redditività insoddisfacente o addirittura in perdita. Anatema! Le imprese in perdita, secondo gli assiomi correnti, distruggono ricchezza; ma anche questo assioma, per quanto generalmente accettato e condiviso, non appare corretto.
E’ vero che un’impresa che – una volta remunerati adeguatamente (e occorre mettere l’accento su «adeguatamente») i fattori della produzione, rispettate le leggi, evitato di distruggere risorse non rinnovabili, ecc. – chiuda i bilanci con un surplus, ha creato ricchezza; ma, per quanto questo possa sembrare sorprendente, non è vero il contrario. Non è facile distruggere ricchezza. L’impresa in perdita remunera i fattori della produzione (paga i lavoratori, le materie prime, e tutto il resto) ma non il capitale di rischio, che viene gradualmente eroso dalle perdite: dunque non crea ricchezza, ma la distribuisce, il che, essendo zero la somma, non equivale a distruggerla. E’ del tutto evidente che è preferibile avere imprese in attivo piuttosto che in perdita; ma se gli obiettivi non sono quelli della massimizzazione della ricchezza, ma piuttosto quelli di una sua più equa distribuzione, anche le imprese in perdita possono contribuire a una maggiore giustizia e pace sociale.
Molti anni fa, quando esisteva ancora la Finsider (che all’epoca perdeva, e anche parecchio) l’ing. De Benedetti disse all’avv. Sette, allora presidente dell’Iri: «Ma non si rende conto che alla Finsider avete 10 mila occupati di troppo?». Sette si limitò a scuotere la testa. Dopo la privatizzazione, la siderurgia ha perso più di 10 mila occupati; e lo spazio rimasto vuoto a Bagnoli e a Taranto è stato riempito dalla camorra e dalla Sacra corona unita. Con quale vantaggio per il paese, non si sa.
E questo ci permette di toccare l’ultimo punto: ammettiamo che un sistema altamente competitivo, completamente privatizzato, dominato da una selezione di tipo darwiniano, porti alla massimizzazione della crescita del Pil. Ma è questo un fine in sé, o stiamo confondendo un fine con un mezzo? Bene la crescita del Pil, se questo porta a un diffuso miglioramento delle condizioni di reddito e di vita della maggioranza dei cittadini; male se un ristretto numero di privilegiati vede accrescersi di molto i propri redditi, e la maggioranza assiste impotente a una crescente precarietà, alla riduzione del suo tenore di vita, all’ampliarsi delle disparità sociali.
Alla luce di quanto stiamo vedendo, e di quel che si è detto, in Italia abbiamo privatizzato abbastanza, e probabilmente troppo. Adesso, per favore, basta.
* ex condirettore centrale dell’Iri