Parto dalla premessa secondo cui, nel quadro della crisi economica mondiale, il liberismo dello stadio monopolistico del capitalismo (ben diverso da quello che segnò nel corso dell’Ottocento lo stadio liberoscambista del capitalismo) è un’arma che serve ai paesi imperialisti sia per contrastare la legge della caduta del saggio medio di profitto sia per sostenere la competizione internazionale. Dunque, a mano a mano che la crisi si acuisce, si accentua, con essa e per essa, la spinta alla creazione di un nuovo sistema istituzionale, normativo e rappresentativo, che offra l’involucro più adatto all’esercizio di un potere sempre meno democratico e sempre più autoritario, perché sempre più strettamente legato agli interessi economici e alla volontà politica della borghesia imperialista. Quegli interessi e quella volontà che spiegano, fra l’altro, il rilievo (che va ben oltre la questione immediata dell’ordine pubblico) assunto dal fenomeno dell’immigrazione che investe il nostro Paese: un problema che, per la sua dinamica così come per le sue implicazioni e per i suoi effetti, merita un’attenzione meno superficiale ed emotiva di quella ad esso normalmente dedicata dai ‘mass media’ (come è avvenuto, da ultimo, sull’onda di un fatto di cronaca nera).
La prima osservazione da fare a tale proposito è che l’idea di ‘blindare’ il nostro paese, ricorrendo alla decretazione straordinaria, è altrettanto illusoria (e obbedisce esclusivamente a motivazioni politico-ideologiche di carattere propagandistico, esattamente come la campagna contro i lavavetri) quanto l’idea di mobilitare le forze dell’ordine per fermare o espellere il flusso di disperati che si riversa sul nostro territorio: entrambe queste idee, oltre ad essere forcaiole e fascisteggianti, eludono la vera questione, che è quella rappresentata dall’intero sistema dei rapporti internazionali creati sulla base del capitalismo imperialista. Una questione che viene accuratamente rimossa, giacché sono proprio questi rapporti che producono tale fenomeno, ne impediscono la soluzione e, con il passare del tempo, lo renderanno, con la loro esistenza e con la loro azione, sempre più imponente e sempre meno controllabile. Occorre invece prendere coscienza del fatto che la causa prima del sottosviluppo cronico e dello sfruttamento che colpisce i paesi meno sviluppati è, anche nella ‘civilissima Europa’, l’imperialismo. Basti pensare alle decine di migliaia di imprenditori italiani che sono partiti all’assalto della ‘fiera dell’Est’, ad esempio in Romania, e hanno contribuito, praticando un capitalismo rapace e predatorio fondato sulla ricerca e l’utilizzazione della manodopera a basso costo in assenza di qualsiasi controllo dello Stato, che è in mano a borghesie compradore come quelle che hanno assunto ‘per conto terzi’ la direzione dei paesi ex socialisti dell’Est europeo, a impoverire questi stessi paesi e a incrementare i flussi migratori da quei paesi al nostro.
Dal canto suo, la borghesia esprime nei confronti di questo problema un duplice atteggiamento: se, per un verso, essa è condizionata dalla preoccupazione di controllare la ‘grande invasione’, per un altro verso è interessata, mediante una forma di moderno schiavismo, a reclutare manodopera a basso prezzo da utilizzare nei lavori più pesanti e insalùbri o da schierare lungo i marciapiedi. Il fatto che poi questa contraddizione interna si manifesti nel conflitto tra razzismo e antirazzismo altro non dimostra se non la funzione di quella ‘camera oscura’ che è l’ideologia, funzione consistente per l’appunto nel riflettere i rapporti reali in modo rovesciato (non è infatti casuale, ma obbedisce ad una precisa logica materiale, che la reazione rudemente immediata di certi settori popolari che vivono sulla loro pelle le conseguenze economico-sociali della immigrazione assuma il colore del ‘razzismo’, mentre una nobile opzione ‘antirazzista’, tanto programmatica quanto illuminata, caratterizza quella grande borghesia al cui traino si pongono certi strati della piccola borghesia intellettuale).In realtà, sia i neomalthusiani che denunciano la mancanza di politiche di appoggio a quelli che eufemisticamente definiscono paesi in via di sviluppo (politiche senza le quali sarebbe impossibile contenere il loro incremento demografico ed arrestarne le correnti migratorie), sia i rappresentanti della filantropia borghese e piccolo-borghese di ispirazione più o meno cattolica che invocano la politica delle ‘porte aperte’ partono dallo stesso presupposto: il carattere immodificabile dell’attuale divisione mondiale del lavoro, della produzione e dei mercati, che rende necessaria (per i paesi imperialisti) l’esistenza di paesi economicamente sottosviluppati e politicamente dipendenti, fornitori di materie prime e manodopera a basso costo, riserve di caccia e moderne colonie del capitale finanziario e delle imprese multinazionali.
Ancora una volta si staglia di fronte alla classe operaia e ai popoli oppressi di tutto il mondo, in apparenza temibile come una scogliera di marmo, in realtà fragile come una tigre di carta, quel ‘meccanismo unico’ che è, secondo l’analisi di Lenin, la formazione imperialistica mondiale: un insieme di capitalismo monopolistico, sciovinismo, bellicismo, razzismo, moderno schiavismo, vecchio e nuovo colonialismo. Qualsiasi analisi della realtà, qualsiasi dibattito sui problemi, qualsiasi proposta di intervento che non tenga conto di tale fattore è inutile o illusoria: è, come ha detto un grande saggio dell’età moderna, più squallida del vento che sussurra d’autunno tra le foglie secche.