Impegno o potere, i rischi degli intellettuali

Da parecchi anni a questa parte, nella rinnovata fortuna di Gramsci nel mondo, la questione intellettuale assume una centralità marcata: si può dire che non vi sia studio apparso nell’ultimo venticinquennio sul tema degli intellettuali che non faccia riferimento alle posizioni gramsciane. E nessuna seria analisi dell’intellettuale può prescindere da quelle analisi, da quelle suggestioni, nelle quali sempre più un vasto pubblico di studiosi cerca e trova conforto o stimolo, e non soltanto il maturo autore dei Quaderni, rinchiuso nel carcere fascista, ma altresì il giovane giornalista militante che grida il valore rivoluzionario della verità. Dire la verità, arrivare insieme alla verità, è cosa eminentemente rivoluzionaria – scrive il Gramsci degli anni torinesi, ancora prima della mirabile avventura dell’Ordine Nuovo. Ancora la verità, come Rolland, come Benda, o, quasi un secolo più tardi, Edward Said: elemento essenziale, autentica cartina di tornasole per il mestiere di chierico.
Gramsci, dunque: la dilatazione del concetto stesso di intellettuale, la distinzione tra intellettuali organici e intellettuali tradizionali (troppo sovente banalizzata e snaturata da lettori superficiali o addirittura disonesti), lo sforzo per identificare un concetto proprio di “egemonia”, evidentemente connessa agli intellettuali, il colloquio polemico ideale con l’intellettuale per antonomasia, Benedetto Croce, la puntuale rassegna di posizioni di chierici negli anni della dittatura: tutto ciò colloca la frammentaria, ma stimolantissima analisi gramsciana non solo nel novero delle riflessioni sul ruolo degli uomini di cultura sotto il fascismo e davanti al fascismo, bensì in un quadro di costruzione del marxismo critico novecentesco che in realtà, per quel che concerne l’elaborazione di Gramsci, partiva da assai prima del suo arresto nel 1926. Già l’intera fase giovanile e in specie l’avventura ordinovista può essere letta in chiave di riflessione sul ruolo degli intellettuali e in particolare sul loro rapporto con le masse. Nell’Ordine Nuovo (1919-1920), la rivista di “cultura socialista” animata a Torino dal giovane sardo, con Angelo Tasca, Umberto Terracini e Palmiro Togliatti, il progetto della costruzione di una cultura propria e autonoma della classe operaia si associa all’idea della necessaria assimilazione critica della cultura borghese, e alla determinazione dell’importanza del ruolo degli uomini di cultura, i quali debbono apprendere le loro responsabilità nel rapporto con gli operai, i contadini, gli impiegati, i tecnici, in una comunità solidale fondatrice appunto di un ordine nuovo, che guardi alla fabbrica come momento chiave della società moderna. Gramsci ci invita, dunque, a guardare agli intellettuali come portatori – nel loro ruolo di educatori critici, di edificatori di consenso e di creatori di egemonia – di responsabilità particolari, a cui non possono sottrarsi senza tradire sé stessi.

Dopo la Guerra mondiale, altri tradimenti avrebbero consumato gli intellettuali, sempre o quasi sempre in relazione a fatti bellici, e dunque alla necessità di costruire “false” verità, o di nascondere la “vera” verità: ecco i chierici in sostanza diventare costruttori di consenso, come Gramsci aveva colto, e in questa funzione i regimi totalitari realizzarono una straordinaria ricollocazione di ruolo.

L’emergere dell’importanza dell’immaterialità, in relazione alla prima società (e dunque di cultura) di massa, sollecitò i reggitori del potere a chiedere ogni sforzo ad artisti, letterati, scienziati… Si trattava di prendere le misure per realizzare quel monumentum aere perennius cui ogni totalitarismo aspira, e che trova espressione nel marmo e sulla tela, sui muri e per le strade, sui libri e sui giornali… E, ancora, gli intellettuali furono coinvolti pesantemente nell’apologia dei regimi politici di cui erano tra i primi beneficiari, ma, in qualche misura, insieme, anche vittime e complici.

Collocato in un’ottica sovranazionale il fascismo proponeva nel tempo lungo dell’entre deux guerres casi clamorosi di compromissione con “il volto demoniaco del potere”, per citare uno dei pochi esponenti dell’intelligenza germanica che si schierò contro Hitler, sirena fascinatrice per troppi uomini di lettere, arti e scienze. Il caso di Martin Heidegger è solo il più clamoroso all’interno di una vasta obnubilazione di coscienze, di cedimenti, di compromissioni assai pesanti, nei confronti del potere totalitario nazifascista. Sappiamo peraltro che, specialmente in Italia, ma non soltanto, si ebbe una dialettica fra intellettuali delle due parti, che conobbe fasi sotterranee, cambiamenti di fronte, riemersioni clamorose, rotture e scontri violenti. Analogamente davanti allo stalinismo, troviamo gli uomini di cultura schierati gli uni contro gli altri. Alle denunce degli uni dei crimini e delle degenerazioni dell’Urss e della politica comunista, corrisposero le ritirate tattiche e le viltà, le complicità attive o passive di tanti altri, anche talora in nome di un imperscrutabile realismo. Troppo spesso, tuttavia, quell’austera funzione critica di servitori della Ragione, quel ruolo sacerdotale di testimoni di Verità, si perse. Le sue riscoperte nel Secondo Dopoguerra furono all’insegna non soltanto della militanza e dello schieramento, ma dell’appartenenza, due concetti che sembrano simili ma sono diversi; un intellettuale non può che schierarsi (altrimenti rimane uno studioso, uno scienziato, un artista…: Dreyfus insegna), ma deve forse avere appartenenze? E avendole, non rischia di rinunciare in partenza a quel ruolo di testimone critico essenziale che sembra essere il suo proprio nella modernità? E soprattutto, come sarà la sua posizione rispetto al Potere? Su questo interrogativo di fondo, e su altri, ma espresso o meno, il nostro Convegno articolerà larga parte dei suoi lavori.

Alcuni anni fa, non casualmente, un importante volume degli Annali della Storia d’Italia Einaudi era dedicato a Intellettuali e Potere (1981): un modo per sfuggire ai rischi della genericità del discorso. Noi sappiamo di correre tale rischio, ma speriamo che i nostri discorsi portino elementi di conoscenza, suggestioni interpretative, prospettive nuove, che ci consentano una mappatura del mondo dei chierici, dal Medioevo a oggi, anzi a domani.

Avrà un futuro, questa categoria di cui facciamo parte? E quali le prospettive di una presenza possibile (anche necessaria?) nella società che stiamo costruendo, o, secondo una prospettiva un tantino più pessimistica (realistica, per qualcuno), disfacendo? In realtà, lungi da qualsiasi tentazione di profetismo, noi affidiamo all’indagine storica le nostre risposte. E nel passato, in quello remoto come in quello più prossimo a noi, cerchiamo soprattutto altre domande, altre questioni, altri problemi.