L’ accordo di Kyoto è morto. George Bush Junior l’ha ammazzato. Si trattava di ridurre, gradualmente per carità, i “gas serra” mediamente del 5,2% (rispetto ai livelli del 1990), entro il 2008-2012. L’accordo sarebbe entrato in vigore se – e quando – fosse stato approvato da quei 55 paesi che sono, tutti assieme, responsabili del 55% delle emissioni di anidride carbonica. Ma quello che dovrebbe colpire è la lentezza, e l’inconcludenza, con cui la comunità internazionale procede nel risolvere questioni che ormai – nonostante tutti i potenti tentativi di “diversione” – considera vitali per la stessa esistenza del genere umano (perlomeno in condizioni paragonabili a quelle che oggi conosciamo).
L’accordo venne firmato, con molta fatica, cinque anni orsono. Di fatto cinque anni sono andati perduti in defatiganti sub-negoziati, alla ricerca di vie d’uscita per i più ricchi e i più inquinanti, Usa in testa. Si è perfino trovato uno splendido escamotage, consistente nel concedere ai più ricchi di comprare dai più poveri (che inquinano, per ora, di meno) quote “inquinanti”. Più o meno uno scambio del tipo: tu mi vendi, anche a caro prezzo, la quota di inquinamento che non consumi. Teoricamente una bella idea, ma solo teoricamente. Perchè presuppone (ipocritamente) che i paesi in via di sviluppo dedichino questo denaro a investimenti che permettano loro, in futuro, di produrre energia senza inquinare troppo. Pia illusione, naturalmente, perchè questi paesi hanno (quando le hanno) priorità esistenziali ben diverse da quelle dei ricchi. I quali dovrebbero – visto che hanno i denari e visto che sono stati loro a inquinare fino al limite, pericoloso, di oggi – essere i primi a investire in energie alternative.
Ma lasciamo da parte le astuzie dei potenti, che non vogliono rinunciare (temo che non possano, neppure volendo) ai loro standard di vita. Un qualunque capo di stato – non solo Bush – che si decidesse a dire la verità ai suoi cittadini lobotomizzati da decenni di uno sviluppo insensato, verrebbe travolto, spazzato via dall’ira popolare. Ci vuole ben altra statura di politici – rispetto a quelli che il convento passa in quest’epoca che viene definita globale – per affrontare il tema inevitabile di un altro tipo di sviluppo. E più passa il tempo, più appare probabile, addirittura certo, che l’umanità sarà costretta, dall’insensatezza generale, cioè dalla sua stessa insensatezza, ad affrontare le decisioni quando sarà ormai tardi per poterle risolvere senza tremendi sacrifici, di vite, di ricchezze, di pace.
La morte dell’accordo di Kyoto (che ne sarà di tutta questa faccenda domani e dopo, nessuno è in grado di dire) mi ha fatto tornare alla mente un altro impegno globale che, se non ricordo male, venne assunto dalla comunità internazionale ben sette anni orsono. Lo si prese in Italia, a Roma, nella Conferenza Mondiale sull’alimentazione organizzata dalla Fao. Si prese atto che sulla Terra c’erano all’incirca 800 milioni di persone che non mangiavano a sufficienza, o non mangiavano affatto. E – dopo lunghe e defatiganti discussioni – si assunse il solenne impegno, se non ricordo male, di ridurre del 50% la quota dei morti di fame entro il 2015.
Capisco l’entità dei problemi, e non mi sembra il caso di ironizzare sull’idea stessa che ci si metta d’accordo, tutti insieme, di stabilire che, entro il 2015 potremo tranquillamente sorbire il nostro cappuccino quotidiano sapendo che 400 milioni di persone stanno morendo di fame, tra cui, statisticamente, dovremmo includere all’incirca 100 milioni di bambini. Nessuna ironia è possibile, visto che nel 1994, quando venne preso l’impegno solenne, noi sorbivamo tranquillamente il nostro cappuccino in presenza, appunto, di 800 milioni di affamati.
No, non è per fare dell’ironia su questo nostro modo di pensare il mondo. E’ per constatare che, trascorsi sette anni da quegli impegni, non solo nulla è stato fatto per realizzarli, ma la situazione è decisamente peggiorata. Adesso i morti di fame sono saliti a oltre un miliardo; l’obiettivo del 2015 è divenuto vicinissimo. E irrealizzabile. Convocheremo un’altra conferenza della Fao?
Ecco perchè vale la pena di mettere insieme Kyoto e Roma. Per concludere che non abbiamo strumenti di governo globali di problemi globali. Anzi non abbiamo la cultura per affrontare un discorso sulla “governance” (così la chiamano gli inglesi) del nostro mondo. Sarebbe utile cominciare a pensarci, prima di fare altre Conferenze Mondiali. Così eviteremmo di fare un altro G-8 a straparlare – come si fece a Okinawa – sulla necessità di “superare il digital divide”. Purtroppo il tempo è poco. Come dice Lester Brown, del Worldwatch Institute, abbiamo due deficit molto seri: di tempo e di leadership.