Capita che una tesi contraddittoria sia più istruttiva di una presa di posizione coerente. Rispondendo a un lettore del manifesto, Valentino Parlato dice di essere d’accordo con Alfredo Reichlin, secondo il quale la società non è più divisa in classi, e nello stesso tempo dichiara che lo sfruttamento del lavoro ne rimane la cifra fondamentale. Vale la pena di chiedersi che cosa si nasconda dietro quello che pare un curioso cortocircuito.
Forse involontariamente, il ragionamento di Parlato contiene una verità importante. Dice che il conflitto capitale-lavoro resta fondante (e non meno dirompente che in passato, a giudicare dalle statistiche delle «morti bianche») ma che non lo si vede più. Questo dato di fatto è come un’unghia a partire dalla quale potremmo ricostruire il leone della storia sociale e politica degli ultimi venticinque anni in tutto il mondo capitalistico.
In Italia, già patria del più grande partito comunista dell’Occidente, gran parte della sinistra politica e sindacale ha subito una trasformazione dettata dal bisogno ossessivo di certificare la propria lealtà e affidabilità. Tale ossessione (che ha motivato prima la Bolognina, poi l’opzione «riformista» della sinistra post-comunista) ha imposto di prendere distanza dal lavoro.
Improbabili analisi sociologiche (abbiamo dimenticato il «post-industriale»? O la «fine del salariato»? O la «scomparsa delle tute blu»? Come se la scomposizione delle filiere produttive modificasse la logica del rapporto di lavoro) sono servite a razionalizzare la scelta di relegare ai margini la battaglia per il riscatto del lavoro e la difesa dei suoi diritti.
Lavoro marginale
Non è tuttavia di storia che si tratta adesso, bensì della lezione che occorre trarre dall’oggi per il domani. Oggi la marginalizzazione del lavoro registra un nuovo salto di qualità.
Credo abbia ragione Gianni Rinaldini nel dire che con la nascita del Partito democratico rischia di compiersi un lungo processo che ha via via privato i lavoratori di ogni riferimento politico. Dopodiché il cortocircuito di cui stiamo parlando diventerà un cerchio infrangibile poiché lo sfruttamento, divenuto davvero invisibile, per ciò stesso si radicalizzerà, decretando una discriminazione del lavoro ancor più feroce di quanto già non sia. Ne deriva – mi pare – un compito preciso per le forze che intendono contrastare tale processo.
Attenti ai simboli
In tutta la discussione sulle sorti della sinistra di alternativa, in tutto questo dibattere di «cantieri» (termine di cui già si avverte qualche ridondanza), ci si sbraccia per chiarire che il punto non sono i nomi e i simboli ma, per carità, i contenuti e i programmi. La cosa – diciamolo – è alquanto sospetta. Se nomi e simboli fossero davvero irrilevanti, perché farne una pietra di scandalo? Non è così. Trasformare il Pci in Pds fu devastante anche per ragioni simboliche.
Riprodurre la falce e il martello in sessantaquattresimo fu una scelta politica chiara, impegnativa e gravida di conseguenze. Dire che di tutto ciò non vale la pena di parlare non è dunque il più nobile esercizio di onestà intellettuale. Tutti sappiamo che i simboli e i nomi sono pezzi di soggettività. Non solo luoghi identitari (il che non è poco), ma anche giacimenti di idee e di riferimenti. E promesse politiche.
Parliamo di contenuti
Detto questo (e chiarito che il tema simbolico non è derubricabile), andiamo pure ai contenuti, cominciando con l’indicare alcune priorità. Se quanto si è sin qui osservato ha un senso, il lavoro è certamente tra queste. Diciamoci, allora, che cosa intendiamo fare per restituirgli la centralità che gli è stata sottratta. In questi mesi l’Unione non ha marciato come un sol uomo contro la precarietà. Né contro il sommerso. Né in materia di sicurezza. Anche a sinistra non è detto che la pensiamo tutti allo stesso modo su tutto ciò o in tema di democrazia sindacale o di Tfr o di pensioni.
Allora, se non vogliamo che proprio il richiamo ai contenuti ostacoli il confronto di merito, cominciamo col dirci con chiarezza che cosa siamo disposti a fare per realizzare in tempi brevi e certi una legge sulla rappresentanza sindacale che riconosca ai lavoratori e alle lavoratrici piena e trasparente sovranità su ogni atto negoziale (piattaforme, mandati, accordi).
E quali passi ci impegniamo a compiere per confinare davvero all’eccezione i contratti precarizzanti introdotti dal pacchetto Treu prima ancora che dalla 30.
E la politica estera?
Sono solo due tra i tanti esempi possibili. Ed è anche chiaro che, accanto al lavoro, vi sono altri temi discriminanti, a cominciare dalla pace, dal disarmo, dalla denuclearizzazione del territorio, da una politica estera che bandisca la partecipazione del Paese a sistemi di alleanza con funzioni offensive.
Resta che l’assunzione di impegni concreti conferirebbe alla discussione sui «cantieri» della sinistra maggiore trasparenza. E, per dirla tutta, anche un carattere meno allusivo.